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Non vi è dubbio che numerose attività industriali nelle produzioni di base siano responsabili dell'emissione di gas serra, sia direttamente nel ciclo produttivo sia in modo indiretto attraverso l'uso intensivo di elettricità o a causa dei residui inquinanti delle produzioni. È chiaro, quindi, che se vogliamo cogliere gli impegnativi obiettivi europei sul clima e raggiungere la neutralità climatica nel 2050 servono la decarbonizzazione, l'efficienza energetica, una maggiore circolarità dell'economia. Gli attuali metodi di lavoro e le tecnologie delle produzioni industriali devono cambiare. È altrettanto chiaro, però, che materiali e produzioni di base avranno un ruolo importante nello sforzo di contrasto al cambiamento climatico. Per costruire pannelli solari, batterie, pale eoliche, piattaforme fisse o galleggianti, per ristrutturare edifici in modo intelligente e sostenibile, per realizzare una transizione di successo, avremo in ogni caso bisogno di acciaio, di materie plastiche, di vetro, di cemento e di altri prodotti industriali.
Un'altra industria è possibile
Ecco perché le iniziative da mettere in campo per la riconversione green non possono essere contro l'industria e i suoi lavoratori. La vera sfida è, al contrario, quella di costruire e plasmare una nuova industria, di riconvertire fabbriche e tecnologie dell'era fossile sostituendole con impianti industriali coerenti con la nuova strategia su ambiente e clima, di accompagnare nella trasformazione e nel cambiamento le professionalità e le competenze dei lavoratori dell'industria. La transizione dell'industria potrà avere successo solo se sarà socialmente sostenibile e condivisa dagli attori sociali e dai protagonisti del lavoro industriale, assicurando nel percorso condizioni di equità, efficacia, giustizia sociale.
Per trasformare l'industria nel senso che auspichiamo servono riforme di carattere strutturale e un nuovo pensiero industriale. Di questo processo devono essere attori e protagonisti i lavoratori italiani ed europei, che non possono essere considerati solo soggetti passivi. È anche per questo che in occasione del lancio del pacchetto “Fit for 55” (il nuovo piano europeo per il clima e l'energia) il sindacato europeo dell'industria, industriAll Europe, pur condividendo le finalità e gli obiettivi del piano, ha lamentato l'assenza di nuove misure e nuovi strumenti – con le relative risorse finanziarie – per assicurare una giusta transizione per i lavoratori investiti dall'accelerazione della decarbonizzazione decisa dall'Europa.
Un quadro normativo innovativo
Ecco, per declinare concretamente l'idea di giusta transizione, il nuovo pensiero industriale di cui c'è bisogno sente fortemente la necessità di poter disporre di un quadro normativo e di un contesto di valore giuridico per gestire gli effetti dell'anticipazione del cambiamento. Un quadro e un contesto all'insegna di dialogo sociale; di strumenti di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori alle scelte generali dei governi e delle imprese; di politiche attive e riforme del mercato del lavoro; di nuovi ammortizzatori sociali; di formazione e riqualificazione professionale.
Il nuovo pensiero industriale afferma che la decarbonizzazione non si raggiunge con la deindustrializzazione e che la trasformazione dell'industria non deve comportare il disfacimento del tessuto industriale e il ricorso a ristrutturazioni aziendali selvagge. Al contrario, la strategia per una effettiva ed efficace decarbonizzazione deve comprendere elettricità pulita, infrastrutture adeguate, capacità di orientare i mercati, forza lavoro qualificata e investimenti adeguati. Il pensiero industriale del XXI secolo deve favorire la ricostruzione e l'accorciamento delle catene strategiche del valore, oggi spezzettate dai colpi inflitti dalla pandemia alla corsa dei decenni passati verso le delocalizzazioni e il risparmio nei paesi low cost. E deve concentrarsi su quelle catene di fornitura e su quei settori che avranno un ruolo centrale nel costruire l'economia sostenibile di domani: energie rinnovabili, attrezzature e macchinari a impatto zero, veicoli a emissioni basse o nulle, idrogeno pulito, biocombustibili, materiali isolanti di nuova generazione per le costruzioni, prodotti e manufatti pensati per la circolarità dell'economia.
Clima e giustizia sociale
Il nuovo pensiero industriale vede gli obiettivi sul clima e la lotta alle disuguaglianze sociali andare di pari passo, in un processo di trasformazione dei modelli produttivi che vive non di strappi improvvisi e socialmente insostenibili ma della necessaria gradualità, nella consapevolezza che il processo vivrà inevitabilmente fasi di passaggio in cui vecchie e nuove tecnologie, vecchi e nuovi combustibili, vecchi e nuovi prodotti, dovranno convivere nell'attesa del momento in cui si realizzerà l'equilibrio perfetto a cui tutti aspiriamo. Servono capacità di comprensione dei processi e apertura mentale come mai prima, di fronte alla rivoluzione industriale in corso.
Gli esperti del settore auto, ad esempio, ci dicono che per costruire un motore elettrico servono dieci volte meno lavoratori che per costruire un sistema di trazione alimentato a diesel. Ci dicono anche che i posti di lavoro che si creeranno nelle gigafactories, gli impianti per la produzione di batterie elettriche a celle, quasi certamente non saranno sufficienti per compensare le perdite di lavoro nelle altre aree dell'industria dell'automotive. Uno studio interno realizzato in Germania dalla Volkswagen stima che la perdita di posti di lavoro nella costruzione di autoveicoli potrà raggiungere il 12% degli addetti attuali nei prossimi dieci anni, man mano che il processo verso l'auto elettrica procede. E con gli esempi si potrebbe continuare a lungo.
Difendersi dallo tsunami
Se è così, tutti dobbiamo avere attenzione alle conseguenze economiche e sociali di questo fenomeno. Conseguenze che hanno bisogno di regole e di gestione, per non lasciare i lavoratori soli e senza protezione di fronte allo tsunami tecnologico e di modelli produttivi, che in parte stiamo già vivendo. Per questo, gli obiettivi climatici a cui aspira l'Europa hanno bisogno sì di meccanismi di regolazione dei mercati, dei prezzi, della concorrenza, ma soprattutto devono fondarsi su una forte dimensione sociale e sul valore del lavoro. Il Climate Social Fund che l'Unione Europea propone di istituire nel quadro di “Fit for 55” è necessario ma insoddisfacente. Le compensazioni sociali lì previste sono basse e non creano le condizioni affinché milioni di cittadini europei con redditi medi o bassi possano sostenere i costi del passaggio a fonti di energia rinnovabile o possano permettersi l'acquisto di un veicolo elettrico al posto della vecchia auto inquinante. È qui, nella realizzazione di un campo di regole e di garanzie per l'insieme della società, nella possibilità per le persone di accedere a un nuovo modello di trasporto pubblico pulito e sostenibile, nella sostenibilità e nella convenienza economica del modello di città e di abitare del futuro, è qui che la dimensione sociale e di consenso popolare diventa decisiva per il buon esito finale della battaglia per il clima. Una battaglia che non si vincerà, se sarà combattuta contro l'industria e il lavoro.
Fausto Durante, coordinatore della Consulta industriale della Cgil