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Le riflessioni su come finalmente progettare il nostro futuro mi trovano totalmente d’accordo. Non è certo una sorpresa, data l’affinità culturale e la reciproca ibridazione che molti lustri di comuni discussioni hanno prodotto fra di noi.
Il ruolo dello Stato, la necessità di programmazione, di pianificazione e di costruzione di una capacità progettuale sono state tra di noi analizzate, approfondite e anche proposte in più occasioni. Il problema è che il nostro Paese non è mai stato in grado, come propone il “progetto”, di creare una sede istituzionale centrale che, operando in collaborazione con più ministeri, possa portare a compimento questa difficile e necessaria trasformazione.
Eppure le idee le abbiamo ed esse, anche se in modo esemplificativo e non esaustivo, sono correttamente riportate nello scritto su cui sto compiendo le mie riflessioni. Altrettanto correttamente viene in esso posto in rilievo che in altri casi, come nell’esperienza rooseveltiana, la progettazione è stata trasformata in realizzazione concreta per effetto di una molto forte e determinata politica pubblica.
Penso tuttavia che l’incapacità italiana di mettere in atto progetti anche largamente condivisi non derivi solo dalla riluttanza di agire con politiche dirette e misure strutturali, preferendo invece gli interventi indiretti (come l’intermediazione delle banche o i bonus e i trasferimenti monetari di varia natura).
I governanti, a mio parere, non hanno alcuna preferenza nei confronti degli strumenti indiretti, ma sono semplicemente costretti a prendere atto che le complicazioni legislative e le paralisi amministrative rendono impossibile il loro funzionamento. In fondo l’acritica moltiplicazione delle “authorities” è stata proprio generata dalla speranza di poter superare queste complicazioni e queste paralisi inventando nuove strutture autonome. Il risultato è stato però l’opposto: il tentativo di ricostituire il potere dello Stato in modo indiretto lo ha ulteriormente indebolito.
La proposta di concentrare le nostre energie migliori in progetti di rilevante importanza è tuttavia condizione necessaria, ma non sufficiente, a cambiare l’Italia. La messa in atto di questi progetti di cambiamento si trova infatti di fronte a difficoltà insormontabili per effetto dell’incapacità di decidere da parte del potere politico, dalla cui volontà dipende l’effettiva realizzazione dei progetti presentati dagli esperti. Inoltre la frammentazione del potere, la fragilità e la brevità della vita dei governi, sono durate ormai tanto a lungo da produrre uno scetticismo disgregatore in tutta la società italiana. Nessuno ormai crede che le cose enunciate vengano fatte.
Voglio a questo proposito fare un esempio concreto. Nel pregevole scritto su cui sto riflettendo, si è fatto benevolmente cenno all’iniziativa presa dai professori e dagli ex-allievi della Bologna business school di organizzare squadre di consulenza gratuita per le piccole e medie imprese in difficoltà in conseguenza del Covid-19. Il progetto è stato portato avanti con serietà e impegno, ma il numero di imprese disponibili ad accettare questa forma di intervento è, almeno fino ad ora, del tutto trascurabile. Non solo nella politica, ma anche nella società non si crede più che le cose possano cambiare.
Non voglio con questo concludere che non si debbano radunare e indirizzare verso la progettazione del futuro tutte le migliori energie del Paese. Bisogna tuttavia prendere atto che, sia nell’ambito del governo che della società italiana, manca la fiducia che si possa dare concreta attuazione alle loro proposte. Forse la mia formazione un po’ grezza di economista mi tradisce: il nostro problema non è solo quello di proporre un buon prodotto, ma quello di creare le condizioni per farlo accettare dai decisori politici e dalla complicata società italiana.
Romano Prodi, economista, è stato due volte presidente del Consiglio dei ministri.