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La pandemia ci costringe a constatare che non esiste un capitalismo davvero praticabile senza un forte sistema di servizi pubblici e senza una protezione dei beni (comuni) globali di interesse collettivo: la salute, l’istruzione, l’ambiente, la cultura e la biodiversità. Se si vuole imparare la lezione di questa dolorosa contingenza va, perciò, ripensato il ruolo del potere pubblico e il modo in cui produciamo e consumiamo. Il che significa impegnare lo Stato e l’Ue a riconvertire la produzione, regolare i mercati finanziari, lanciare un grande piano di risanamento per la reindustrializzazione ecologica e lo sviluppo delle energie rinnovabili e ridurre la pressione tributaria sulle famiglie e sulle imprese e costruire, nel contempo, tributi europei che abbiano anche il fine di finanziare gli interventi antipandemia dell’Ue.
Mi soffermo, in particolare, su quest’ultimo aspetto. Sul piano delle politiche fiscali, la ripartenza postpandemia dovrebbe essere l’occasione per realizzare una riforma organica che attribuisca alla tassazione e al sistema degli incentivi il fine di ottenere un giusto bilanciamento fra produzione e consumo, di ridistribuire in modo più appropriato redditi e ricchezza e di incentivare un lavoro riqualificato, che non può essere svolto dall’intelligenza artificiale e dovrebbe essere assistito da garanzie comuni e impiegato anche nel settore dell’economia sociale e della condivisione.
Si tratta non di tassare la tecnologia in sé, ma di spostare effettivamente il prelievo dai redditi di lavoro, familiari e di impresa ai sovraprofitti, ai grandi patrimoni, ai grandi lasciti ereditari e donazioni e, soprattutto, al valore aggiunto economico di quelle digital enterprises che hanno costi marginali molto bassi e un elevato, direi quasi spropositato, valore di borsa. Mi riferisco al rafforzamento delle imposte successorie – sulla cui coerenza costituzionale è stato chiamato a pronunciarsi la Corte costituzionale proprio in questi giorni – e alla tassazione, a livello europeo, sia delle transazioni finanziarie (la cosidddetta Tobin tax), sia dell’uso delle materie prime non rinnovabili (la carbon tax interna e alle frontiere), sia delle posizioni di rendita come quella della digital economy, derivanti dalla raccolta e dall’uso di dati e informazioni nei confronti dei privati (la web tax del tipo di quella sui servizi digitali introdotta in Italia dalla legge di bilancio per il 2019, ma finora rimasta inapplicata per “incompatibilità” con la Global Intangible Low-Tax Income USA).
Progetti riformatori di questo tipo dovrebbero essere integrati da una forte azione antievasione e antielusione. È eloquente al riguardo un passaggio della relazione di fine maggio, svolta dal governatore Ignazio Visco in occasione dell’assemblea della Banca d’Italia, in cui si legge che “ciò che ci differenzia dalle altre economie avanzate è l’incidenza dell’economia sommersa e dell’evasione, che si traduce in una pressione fiscale effettiva troppo elevata per quanti rispettano pienamente le regole”. Le ingiustizie e i profondi effetti distorsivi che derivano da evasione e sommerso si riverberano, infatti, sulla “capacità di crescere e di innovare delle imprese e generano rendite a scapito dell’efficienza del sistema produttivo”. Alcuni dei suddetti “tributi europei” sono stati caldeggiati dall’Ocse, sono coerenti con il dettato dell’articolo 311 del Trattato sul funzionamento dell’Ue (Tfue) e sono stati oggetto di specifiche proposte di direttiva della Commissione Ue. Non hanno, però, raccolto finora l’unanimità di consenso dei Paesi membri. La situazione di crisi prodotta dalla pandemia potrebbe riaccendere l’attenzione almeno su alcuni di essi.
L’istituzione di questi tributi presuppone, evidentemente, l’attribuzione alla Commissione Ue di una maggiore potestà di imposizione che le consenta di svolgere proprie politiche allocative, stabilizzatrici e ridistributive. Non si può, infatti, avere centralizzazione delle politiche monetarie e sociali senza avere nel contempo anche la disponibilità di entrate proprie che si accompagnino a quelle che compongono il sistema tributario dei singoli Stati e degli enti substatali. Non eccede, quindi, in retorica chi sostiene che un fisco europeo deve essere un passaggio essenziale perché l’Ue prenda il posto dello stato sociale come coproduttore di sicurezza per i suoi cittadini. E se ciò è lecito e naturale in tempi ordinari e nella prospettiva di creare l’embrione di un vero e proprio bilancio europeo, a maggior ragione è auspicabile in tempi straordinari ed eccezionali come quelli che stiamo vivendo.
È anche a questi tipi di finanziamento che si è riferita in questi giorni la presidente della Commissione UE, Ursula Von der Leyen, quando, aderendo alla proposta della Francia e della Germania condivisa dagli altri Stati del Sud Europa, ha proposto l’istituzione del Recovery Fund, frutto dell’indebitamento nel mercato “a nome dell’UE”, le cui risorse dovranno essere allocate ai settori e alle aree colpiti sotto forma anche di sussidi (grants) e non solo di prestiti (loans). È evidente che, se il debito è assunto a nome dell’Ue, dovrà essere il bilancio di quest’ultima a garantirlo, non già i singoli bilanci dei suoi Stati membri. Da qui la proposta della Von der Leyen di migliorare il quadro fiscale dell’Ue introducendo “un’effettiva tassazione minima ed una tassazione equa dell’economia digitale all’interno dell’Ue” e istituendo una Common Corporate Tax Base.
Si badi bene, ciò non significa che nelle intenzioni della Commissione si debba andare necessariamente verso un radicale accentramento europeo delle politiche fiscali. Avendo gli Stati membri dato vita ad un’eurozona basata sulla centralizzazione della politica monetaria, è però inevitabile che tali politiche, sia pur decentralizzate, finiscano per essere nel tempo armonizzate in sede Ue al fine di renderle in qualche modo compatibili con la condivisione di una moneta comune. La novità portata dalla pandemia sta nel fatto, eccezionale, che essa ha colpito la generalità degli Stati e, quindi, sta imponendo di rispondere ai suoi effetti devastanti attraverso nuove fonti finanziarie sovranazionali di ampio raggio, che dovranno aggiungersi all’incremento dei trasferimenti degli Stati a favore del bilancio europeo. Questo farà probabilmente emergere la frattura, finora latente, tra chi vuole che il potere rimanga agli Stati membri – e quindi tende ad essere, nell’attuale contingenza, contrario al finanziamento del Recovery Fund attraverso uno strumento fiscale europeo – e chi, invece, ritiene che sia ormai necessario trasferire almeno una parte del potere fiscale alle istituzioni sovranazionali anche e non solo quale fonte di finanziamento di detto fondo.
Se si passa al tema, di più stretto interesse nazionale, della riforma del vigente sistema delle imposte dirette, non avrei dubbi sulla necessità di accompagnare una robusta lotta all’evasione e all’economia sommersa, fondata sull’uso dello strumento digitale, con l’alleggerimento della pressione tributaria sulle famiglie, sui lavoratori e sulle imprese. Sono questi soggetti, infatti, che hanno subìto di più gli effetti della decrescita degli anni passati e sono stati più danneggiati dalla crisi di liquidità e dalle insicurezze prodotte dalla pandemia. È inevitabile, al riguardo, rinunciare al progetto della flat tax rozzamente abbozzato dal precedente governo e puntare, invece, a ridisegnare la progressività del tributo in modo tale che, a regime, le classi meno abbienti maggiormente colpite dalla sfavorevole congiuntura risultino – in applicazione del principio rawlsiano del maximin – ragionevolmente più avvantaggiate o meno svantaggiate rispetto a quelle più ricche, o comunque assoggettate a imposizioni cedolari proporzionali.
Seguendo l’esempio dell’imposta personale tedesca, la soluzione potrebbe essere quella di costruire la progressività ricorrendo per il calcolo del tributo a una funzione matematica continua che determini le aliquote medie per ogni livello di reddito, superando il sistema degli scaglioni ed evitando, di conseguenza, i salti di aliquote. La redistribuzione sarebbe, così, perseguita con maggiore sofisticatezza e attenzione tecnica e presupporrebbe iniziative legislative diversificate, interessanti altri tributi e coordinate con le politiche previdenziali e assistenziali strutturali della spesa, rese ancor più necessarie dalla crisi pandemica e dall’impoverimento di quello che è stato finora il ceto produttivo.
Quanto infine alla riforma dell’imposta societaria, mi pare convincente, nel lungo termine, la proposta di tassare i flussi di cassa, e cioè entità più facili da accertare e più difficili da manipolare rispetto agli utili. Come ho già detto in altra sede, tale sistema avrebbe l’effetto, indubbiamente positivo, dell’immediata deducibilità per cassa degli investimenti e dell’irrilevanza delle componenti finanziarie, con conseguente eliminazione dell’attuale trattamento fiscale favorevole all’indebitamento piuttosto che all’emissione di capitale. Nel breve e medio termine sarebbe, però, già una conquista se si potesse portare avanti il progetto del consolidamento e della ripartizione (apportionment) delle tradizionali basi imponibili dell’Ires a livello comunitario e sovranazionale. È da tempo, infatti, che i maggiori esperti fiscali si esprimono per l’istituzione di una Corporate tax europea comune per le società, come quella indicata dalla Von der Leyen quale possibile, parziale fonte di finanziamento del Recovery Fund.
L’istituzione di un tale tributo ha trovato finora un ostacolo insormontabile nella regola dell’unanimità fissata in materia fiscale dal richiamato articolo 311 del Tfue; regola che ha consentito la permanenza di paradisi fiscali come l’Olanda, l’Irlanda, il Lussemburgo e altri paesi minori. Sono, però, sempre più numerosi coloro che ritengono che tale ostacolo potrebbe essere superato se la Commissione si decidesse ad applicare, anche in materia fiscale, l’articolo 116 del Tfue, il quale prevede che il diritto di veto degli Stati membri possa essere superato nei casi in cui essa constati che una “disparità esistente delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative degli Stati membri quelle, per capirci, che attualmente legittimano il dumping fiscale falsa le condizioni di concorrenza sul mercato interno e provoca una distorsione che deve essere eliminata”. È sull’applicabilità di tale disposizione che probabilmente si giocherà nel prossimo futuro la sorte della suddetta Common Consolidated Corporate Tax Base (Ccctb) e non solo di essa.
Franco Gallo è un giurista, è stato presidente della Corte costituzionale della Repubblica