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Non c’è nulla di più ingiusto che fare parti eguali tra diseguali. Don Milani è stato certo tra i maggiori pedagogisti del '900 e se riscoprissimo i suoi insegnamenti probabilmente riusciremmo a “costruire” una scuola più giusta e utile, più rispondente al dettato costituzionale che afferma l’istruzione come diritto di cittadinanza (quindi necessariamente pubblica). Ma se quella frase del priore di Barbiana ha fondamento, allora la messa a terra delle risorse che il Pnrr destina ai nidi non funziona.
L’Europa vuole che almeno il 33% dei bimbi e delle bimbe trovi posto al nido. Percentuale non raggiunta dal nostro Paese, ma come è immaginabile "regione che vai numero di posti che trovi". Qualche esempio? A Reggio Emilia il 55% dei bimbi e delle bimbe sono iscritti al nido, in Campania non si arriva al 10%.
Se così è, allora, aver riservato il 40% delle risorse che il Pnrr destina ai nidi, due miliardi e 400 milioni, alle regioni meridionali è certo cosa buona e giusta, ma non sufficiente. È buona e giusta perché per molti anni, per questo e altri capitoli della spesa ordinaria, è stato premiato con stanziamenti maggiori proprio il Centro Nord. Aver quindi creato una quota riservata è positivo, forse anche doveroso. Ma è insufficiente perché intanto quel 40% non basta a colmare il divario che esiste, ma anzi paradossalmente rischia di approfondirlo: se il 60% va comunque alle regioni con tanti asili a disposizione inevitabilmente la distanza aumenterà, lo dice la matematica. Poi perché andrebbero colpite le ragioni che hanno stratificato negli anni. Non solo: se proprio le regioni che hanno più bisogno di nidi hanno “faticato” di più a presentare i progetti per partecipare ai bandi del Pnrr, tanto che per assegnare tutte le risorse disponibili c’è stato bisogno di riaprire i termini per ben due volte, qualche ragione ci sarà. Forse le ragioni hanno a che fare anche con quelle che hanno portato al divario.
Come più volte hanno sottolineato i segretari della Cgil del Sud, Summa della Basilicata, Ricci della Campania, Sposato della Calabria, Mannino della Sicilia e Piddiu della Sardegna, due sono i problemi fondamentali che preoccupano i sindaci: da un lato la scarsissima capacitai elaborare i progetti a causa del depauperamento di donne e uomini negli enti locali; all’altro la consapevolezza che una volta costruite le mura dei nidi i Comuni non hanno le risorse per farli vivere, non solo per assumere il personale, ma anche per pagare bollette e provvedere alla manutenzione ordinaria.
In ogni caso oggi, a seguito delle proroghe del bando scaduto definitivamente lo scorso 31 maggio, anche le regioni più “lente” hanno presentato un numero sufficiente di progetti per veder rispettata l’assegnazione del 40% al Sud. La graduatoria dei progetti presentati vede in testa – e questa è certamente una buona notizia -la Campania arrivata a quota 206, segue la Lombardia (157), poi la Calabria (144) e il Lazio (138). E dalle tre più in ritardo (Molise, Basilicata e Sicilia) le richieste arrivate entro l’ultima scadenza sono in linea con le disponibilità finanziarie. Questa volta la Sicilia ha presentato altre 22 domande, il Molise e la Basilicata altre 9.
L’Italia ha ricevuto la quota maggiore dei fondi di Nex Generation Eu. Non per grande generosità dell’Europa, ma perché quel piano di finanziamenti ha tra gli obiettivi ridurre i divari, di genere, tra le generazioni e territoriali. Purtroppo il nostro Paese ha tristi primati su tutti e tre i fronti. Ma se così è la strategia pensata con il Pnrr non va nella direzione voluta dall’Europa e rivendicata da Don Milani. Sarebbe stato probabilmente più “giusto” individuare una soglia minima di nidi uguale su tutto il territorio e concentrare le risorse nei Comuni sotto soglia. Non solo: probabilmente oltre ai soldi per costruire le infrastrutture materiali andava anche prevista una sorta di “supplenza” centrale da esercitare nei confronti di enti locali in difficoltà.
I miliardi europei servono a costruire le mura dei nidi. Al momento non vi è nessuna previsione di poste di bilancio per far vivere quelle strutture. Farle vivere, lo dicevamo, non significa solamente reclutare e pagare il personale necessario. Occorre che la spesa ordinaria dello Stato preveda un aumento consistente di risorse per l’ordinario funzionamento non solo dei nidi, ma per il welfare in generale. A cominciare dalla prossima legge di bilancio. Altrimenti si corrono due rischi. Da un lato che le strutture rimangano vuote, oppure, visto che il Pnrr lo prevede, che lo Stato investa nelle mura e poi il servizio venga affidato al privato. Che ovviamente deve far profitto. Ma in ogni caso, con quali criteri di accreditamento? Il problema del reclutamento del personale rimane, sempre che non capiti come per gli infermieri che non si trovino educatori e educatrici adeguatamente formati. Già, perché una professione importante e delicata, per la quale è giustamente previsto un percorso formativo specifico, è – come gran parte di quelle legate ai servizi e alla cura – assai poco retribuita e quindi poco desiderata.
Infine, ancorché inseriti nel percorso di istruzione, i nidi sono classificati come servizi a domanda individuale, esistono graduatorie per essere ammessi e una retta da pagare. E paradosso nei paradossi, i figli di genitori tutti e due al lavoro ottengono un punteggio maggiore di quelli la cui mamma è a casa. Qui comincia la prima discriminazione: è ormai accertato che i bimbi e le bimbe che frequentano i nidi hanno uno sviluppo psicofisico migliore, acquisiscono maggiori capacità di socializzazione e di apprendimento. Esattamente ciò che serve proprio ai figli delle famiglie più disagiate. Ma sono proprio loro che più difficilmente scalano le graduatorie e, se ce la fanno, non sempre riescono a sopportare la spesa della retta. Non si dovrebbe intervenire per correggere questa stortura? La questioni dei costi è dirimente. Difficilmente questo che è un servizio importantissimo per ridurre le differenze di partenza tra bimbi di condizioni sociali diverse potrà essere accessibile a chi ne ha più bisogno, fintanto le rette saranno alte come sono. E allora anche da questo punto di vista non solo non si possono fare parti uguali tra diseguali, ma i nidi rischiano di diventare a loro volta strumento che acuisce le diseguaglianze, perché solo i figli di chi sta meglio economicamente e socialmente potranno permettersi di frequentarli.
Riflette Susanna Camusso, responsabile Politiche di genere della Cgil: “Gli ultimi dati Istat indicano il moltiplicarsi della povertà, i minori coinvolti. Il dibattito pubblico però si concentra sul reddito di cittadinanza, e non invece su come far uscire dalla trappola i bimbi e le bimbe”. Già, la povertà minorile: proprio da questo punto di vista nidi e scuole a tempo pieno sono uno strumento fondamentale. Aggiunge la dirigente sindacale: “Con il Covid in Gran Bretagna si discusse sulla chiusura delle scuole, perché avrebbe avuto come conseguenza per molti bimbi e bimbe dei primi cicli di istruzione la perdita dell'unico pasto caldo e regolare della loro giornata. Questa riflessione da noi è totalmente inesistente”.
“Insomma – conclude Camusso – la scolarità piena anche nella fascia da 0 a 6 anni è presupposto di cittadinanza piena, quindi dovrebbe essere garantita proprio come diritto di cittadinanza. Quello che non funziona nel Pnrr, e i nidi ne sono una dimostrazione, è che si è dimenticato che lo scopo essenziale del Piano per definire un futuro di crescita, ovvero ridurre le diseguaglianze. Averlo dimenticato fa sì che si rischi di costruire contenitori che non avranno contenuto. Così i bimbi e le bimbe rimarranno privati di una chance, di un’opportunità migliore per il loro domani”.