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Rassegnazione e sfiducia sono i sentimenti prevalenti tra quanti si trovano in difficoltà economica. Si sentono abbandonati dalle istituzioni e quasi ritengono che la propria condizione sia inevitabile, che gli anni di Reddito di cittadinanza siano stati un colpo di fortuna immeritato. Troppo diffusa nel nostro Paese è l’idea che la povertà sia una “colpa” dei singoli. Non è così, ci dice l’economista Elena Granaglia che, invece, sostiene che l’aumento delle diseguaglianze sia una diretta conseguenza del modello sociale ed economico. Occorre, afferma la studiosa, intraprendere la via delle opportunità. Così come è impressa nella nostra Costituzione.
Dal primo di gennaio nessuno più riceve il reddito di cittadinanza, sostituito da un assegno di inclusione per i non occupabili. E poi un assegno, inferiore di importo, per i cosiddetti occupabili che frequentano corsi di formazione. Però né dell'uno né dell'altro si sa praticamente nulla. Che cosa sta succedendo? E soprattutto, a suo giudizio, che cosa sta succedendo a quanti sono in povertà?
È vero che non abbiamo dati ancora precisi, non funziona il sistema informatico e quindi le stesse procedure richieste dalle due misure non possono essere attuate o comunque stanno funzionando abbastanza male. Però abbiamo delle indicazioni che secondo me sono molto preoccupanti. La prima misura, il supporto per la cosiddetta “formazione lavoro”, innanzitutto definisce l’occupabile in maniera strana, non legandolo all’andamento del mercato del lavoro, ma alla presenza o meno di figli minori, di portatori di disabilità, e all’età. Insomma si ritiene non occupabile chiunque abbia carichi di cura. Per di più questo strumento è previsto solo per un anno, unicum in Europa. Insomma si è abolito il reddito di cittadinanza a favore di uno strumento di sostegno per la ricerca di lavoro per persone definite occupabili che sono, in realtà, lontane dal mercato del lavoro da tempo lungo. Non solo. Per aver diritto a questo assegno è stata abbassata la soglia di reddito, portandola da 9.000 a 6.000 euro. Si è quindi deciso che chi sta tra i 6 e i 9.000 euro annui non è più povero? Infine c’è un’altra cosa che mi sembra preoccupante: non si capisce bene dalle norme se sia corretto che queste persone possano accedere al sostegno reddituale solo dopo che hanno attivato con servizi per l'impiego un patto per il lavoro. Quindi, non solo dopo che hanno attivato il patto digitale iniziale, ma solo dopo che abbiano incontrato i servizi per l’impiego. Sappiamo che i servizi per l'impiego molto spesso non riescono a incontrare i beneficiari prima di 120 giorni. Insomma c’è il rischio forte che le insufficienze dei servizi ricadano sull’esigibilità del diritto all’assegno.
Dalle scarsissime notizie che si hanno, sembrerebbe che tra Il numero degli aventi diritto a questo strumento e quanti realmente abbiano fatto la domanda per accedere allo strumento, ci sia uno scarto di oltre il 50%. Come si spiega che chi ha diritto allo strumento non fa nemmeno domanda?
Non accade solo in Italia. Uno scarto più o meno grande tra gli aventi diritto e quanti fanno domanda di strumenti di sostegno al reddito è abbastanza diffuso in Europa. I Paesi devono dotarsi di strumenti di monitoraggio per cercare di capire di più per quale ragione le persone non fanno domanda. In ogni caso da noi, sia la farraginosità dell’attivazione del patto, sia il fatto che sia una misura che richiede una grande condizionalità, per avere l’assegno di 350 euro al mese – oltre a frequentare un corso - si deve andare praticamente ogni 90 giorni al centro per l’impiego, si deve dare conferma dei compiti svolti, accettare qualsiasi offerta di lavoro. Rischia di essere uno strumento di per sé disincentivante. Inoltre, siamo anche in un Paese in cui c'è tanto nero e un lavoro a 350 euro al mese probabilmente si trova. Queste sono soltanto mie illazioni, bisognerebbe assolutamente dare seguito alla raccomandazione europea e mettere in atto sistemi di monitoraggio per capire le ragioni di uno scostamento così forte. Poi, probabilmente, esiste un’altra ragione: molti di quanti sono ritenuti occupabili forse non lo sono, visto che hanno conseguito solo la licenza elementare, sono lontani dal mercato del lavoro da lungo tempo, oppure abitano in zone in cui la domanda di lavoro è praticamente vicina a zero. Occorre capire ma serve interesse a farlo. Invece sembra che l'interesse a capire questo governo ce l'abbia un po’ poco.
E poi è previsto uno strumento per i non occupabili...
Per alcuni aspetti è simile al Reddito di cittadinanza, almeno nella soglia per accedervi, però sono ridotti i contributi per la casa e non esiste più il sostegno per il mutuo. Poi ci sono delle strane scale di equivalenza e dei vincoli molti netti legati all’età dei bimbi. Si prevede che si debbano dare un pochettino più di risorse al nucleo familiare con minori di tre anni. Quando il bambino o la bambina celebrano il compleanno e passano ad avere tre anni e un giorno quella necessità viene meno, come se il bisogno di soldi venisse a cessare perché il bambino o la bambina compie gli anni. Questo è molto, molto bizzarro.
Il governo ha dichiarato già in campagna elettorale che voleva abolire il reddito di cittadinanza: viste le proteste che sono state mosse, ha dovuto inventare degli strumenti che però sembrano più avere come obiettivo quello di limitare l'esborso economico che non quello di pensare davvero a politiche di contrasto alla povertà.
La loro visione di fondo – purtroppo diffusa - è che la povertà sia una colpa, che il lavoro sia lo strumento per affrancarsi dalla povertà e chi non lavora non si da’ abbastanza da fare. Tra le stesse persone fragili è diffusa rassegnazione e sfiducia, che hanno fatto considerare loro come una sorta di colpo di fortuna il periodo in cui hanno percepito il Reddito di cittadinanza.
È la rassegnazione, quindi, la ragione della mancata protesta sociale che pure si poteva immaginare?
Assolutamente sì, molto spesso quando c'è emarginazione, ci si sente marginali. Sicuramente c’è tanta sfiducia, che dipende dal fatto che tutto sommato le istituzioni stanno da tanto tempo lasciando un po’ le persone al loro destino.
Se invece la povertà è una conseguenza delle scelte di politica economica e di politica sociale che acuiscono le diseguaglianze, quali sono gli interventi che occorre mettere in campo?
Le persone che sono in condizioni di povertà molto spesso lo sono per responsabilità collettiva. Chi sta meglio non ha creato condizioni di uguaglianza e di opportunità per tutte e tutti in una duplice dimensione. La prima è la dimensione individuale: serve dare più istruzione e formazione, certo, poi una serie di servizi di conciliazione. Nessuno può mettere in discussione l'importanza dell'istruzione e dei servizi, però purtroppo la questione è molto più complicata. In un mondo diseguale, il rischio che queste siano invocazioni e che poi nessuno le finanzi in maniera adeguata è assai alto. Ridurre le diseguaglianze è difficile anche proprio da un punto di vista di sostenibilità politica. La seconda questione è che le barriere non sono soltanto di tipo individuale, ma hanno a che fare con la più complessiva struttura sociale ed economica in cui noi viviamo. Se continuiamo, ad esempio, ad avere un mercato del lavoro che produce questi numeri di lavoro povero, è chiaro che anche se li istruiamo tutti un po’ di più, ci sarà sempre un gran numero di persone senza opportunità di vita decorosa. Occorre pensare e realizzare un contesto socio-economico che garantisca una maggiore attenzione a condizioni di vita decenti. Abbiamo delle linee guida da seguire, sono scritte nella Costituzione.