Il 4 novembre il governo Meloni ha licenziato un aggiornamento della Nadef (la Nota di aggiornamento al Def, ndr). Il documento però dà informazioni macroeconomiche e di finanza pubblica parziali: confidiamo di trovarne nel Documento programmatico di bilanci. Nelle nuove previsioni, si tiene conto degli ultimi dati Istat che fanno sperare in una crescita del Pil pari al 3,7% nel 2022.

Ovviamente la Nadef, e di conseguenza la legge di Bilancio, devono tener conto della previsione di crescita del Pil italiano del prossimo anno – vista la crisi energetica e l’infazione – che è stata rivista al ribasso passando dallo 0,6% allo 0,3% perché permangono le attese di un rallentamento del cicloeconomico a livello europeo e globale. In ogni caso, il governo ritiene prioritario rispondere al caro bollette e questo riporta la stima di crescita del Pil allo 0,6%.

Nonostante queste previsioni a pagare il prezzo maggiore, è lo stesso Governo a dirlo, sarà il lavoro. Infatti nel documento si legge che “l’indebolimento dell'economia potrebbe portare a un’inversione di tendenza nel mercato del lavoro”. Si stima una variazione dei posti di lavoro inferiore alla crescita del triennio, a partire dal 2023 in cui la dinamica occupazionale è stata rivista al ribasso, e il sostegno delle misure di governo comporterebbe solo un decimale di incremento dell’occupazione.

Egrave; sempre l’esecutivo Meloni a prevedere solo un parziale recupero del potere d’acquisto dei redditi da lavoro. E da noi, si sa, i salari sono fermi da oltre 20 anni. Davvero ci si chiede se è così che si difendono le famiglie. Sempre rimanendo nel capitolo risorse disponibili per le famiglie, il Governo ricalibra verso l’alto la previsione dell’inflazione effettiva (al 7,0% nel 2022 e al 5,9% nel 2023).

 

Questo è lo scenario che però dovrebbe essere attenuato dagli interventi che il governo vorrebbe mettere in campo, oltre che dalla cauta ipotesi di contenimento dei prezzi energetici a seguito della recente discesa del prezzo all’ingrosso del gas naturale. Eppure, l’incertezza del contesto internazionale e il peggioramento delle aspettative di imprese e famiglie, alimentata anche dai rialzi dei tassi da parte della Bce – evidenziati con intonazione critica nella stessa Nadef aggiornata – destano molte perplessità sulle previsioni istituzionali.

Come abbiamo imparato in questi mesi, la variazione del Pil nominale nel 2022, tanto più in presenza di un’inflazione più alta della previsione di settembre scorso, porta con sé entrate più alte per lo Stato – derivanti soprattutto dall'Iva – che finora sono state utilizzate per le diverse misure di “aiuto” contro inflazione e caro-bollette. Il nuovo rapporto fra indebitamento netto e PIL dovrebbe, quindi, confermarsi al 5,1% nel 2022. Se si considera, inoltre, che il deficit 2022 approvato dalle istituzioni europee nel quadro programmatico del Def di aprile era pari al 5,6% del Pil, i margini per il Decreto ‘Aiuti-quater’, per prorogare misure vigenti, sono di oltre  9 miliardi di euro.

Egrave; bene ricordare che nel 2022 il governo Draghi aveva già impegnato 66 miliardi di risorse pubbliche (57,6 miliardi sin qui, pari a 3 punti di Pil) per crediti d’imposta, bonus e altre agevolazioni fiscali di sostegno all’economia, alcune delle quali con scadenza al 31 dicembre 2022. Ma la domanda che sorge spontanea è: questi soldi sono stati utilizzati bene visto che in Europa l’Italia è il paese che ha speso di più per l’emergenza?

Con lo sguardo alla legge di Bilancio 2023-2025, perciò, il governo intende fissare al 4,5% il deficit 2023, contro un tendenziale pari al 3,4%. Rispetto alla previsione tendenziale questo comporta un margine di risorse di 21 miliardi per il 2023 e di 2,4 miliardi per il 2024. Difatti, contestualmente alla nuova Nadef 2022, il Consiglio dei ministri ha approvato la Relazione al Parlamento con cui si richiede l’autorizzazione allo scostamento di Bilancio (in cui di dà anche conto dell’extra-gettito di 9,1 miliardi per il 2022).

La definizione dei nuovi interventi, purtroppo, verrà deliberata in seguito, così come eventuali risorse aggiuntive che dovranno essere reperite da riduzioni della spesa pubblica oltre che, come dichiarato dal ministro Giorgetti, in conferenza stampa “all’interno del settore”, ovvero degli stessi capitoli di spesa, a partire da fisco e previdenza (basti pensare alla cosiddetta “pace fiscale” o alla riduzione delle tax expenditures). Per fortuna e finalmente la Relazione sull’economia non osservata è stata pubblicata, così come unitariamente avevamo sollecitato il governo già in occasione della Nadef di settembre, e riporta un dato molto interessante.

Così come è bene tenere a mente che se il Rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrasto all'evasione fiscale e contributiva indica in 1,4 miliardi le maggiori entrate strutturali derivanti dalla maggior compliance che possono essere destinate al fondo per gli interventi di riforma del sistema fiscale, è utile segnalare che la legge di Bilancio 2019 quantificava in 1,1 miliardi di euro il costo dell'incremento della soglia per l'accesso alla flat tax da 65.000 a 100.000 euro.

Sarebbe ovviamente opportuno che la previsione di nuove entrate nel corso del prossimo triennio, così come le eventuali maggiori entrate strutturali da contrasto all’evasione, fossero redistribuite al lavoro e alle pensioni, tanto più in presenza di un’emergenza che pesa di più sui bilanci delle famiglie a medio e basso reddito.

Fin qui abbiamo considerato la Nadef dal punto di vista delle entrate. Se la osserviamo dal lato della spesa pubblica, balza agli occhi la flessione nominale di importanti capitoli di Bilancio già nel 2023: Redditi da lavoro dipendente -0,6, Consumi intermedi -0,8, Prestazioni sociali diverse dalle Pensioni -4,5 e Spesa sanitaria (-1,7). Certo alcuni capitoli di spesa vengo meno per la presunta fine dell’emergenza pandemica, ma ridurre prestazioni sociali o spesa sanitaria non pare proprio in linea con i bisogni del Paese.

Aumenteranno, invece, gli interessi passivi sul debito pubblico (+5,6), la spesa previdenziale (+8,1) e gli investimenti pubblici(+34,7) quale acconto per il “forte impegno dedicato all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (nrr), da cui dipendono ingenti investimenti per rilanciare la crescita sostenibile dell’economia italiana”.

Riccardo Sanna è coordinatore dell'Area Politiche dello sviluppo della Cgil