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Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale Giuseppe Provenzano, 850 mila posti di lavoro persi in un anno, lo certifica l’Istat. Sono soprattutto donne e giovani meridionali. I divari si allargano invece che ridursi e confermano che la questione meridionale deve diventare questione nazionale.
Sono numeri che ci dimostrano una volta di più la gravità della situazione, allarmante, nonostante le misure di contenimento che il governo ha messo in campo con la prosecuzione della cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti. Avremmo potuto avere una situazione persino peggiore. Adesso la questione non è soltanto colmare la voragine occupazionale, ma evitare che la ripresa sia senza lavoro. Proprio per questo dobbiamo mettere in campo misure straordinarie di accelerazione degli investimenti e altre che accompagnino questo processo. Dobbiamo farlo soprattutto nel Mezzogiorno che però è diventato questione nazionale. Non esiste da decenni un governo che prende così di petto la questione meridionale e la pone in cima alle sue priorità, come dimostra anche il Decreto agosto.
È corretto affermare che la pandemia ha svelato che il regionalismo estremizzato e il modello liberista sono il male del Paese, che esaspera le differenze invece che ridurre i divari?
Il modello liberista è esattamente l’indifferenza alle diseguaglianze e l’incapacità di immaginare un modello di sviluppo che tenga insieme crescita ed equità. È il frutto anche del progressivo smantellamento delle leve nazionali di intervento nell’economia che si è determinato nel corso di una stagione molto lunga. È evidente, lo abbiamo visto nel corso dell’emergenza sanitaria, ma vale anche per la nuova fase di investimenti: il regionalismo non ce la fa, è necessario rafforzare i presidi centrali di coordinamento. Per la verità, in questo, come in altri casi, la pandemia non ci dice nulla di nuovo, è come una lente di ingrandimento sui nostri problemi, è un pettine che ha fatto e fa risaltare i nodi irrisolti come quello – appunto – del rapporto tra Stato e Regioni. Io non credo che siano maturi i tempi per una riforma costituzionale, ma sono convinto che la necessità di rafforzare i presidi centrali, dopo la pandemia, sia aumentata. Per la verità, per quello che mi riguarda, ci avevamo lavorato anche prima. L’elemento di maggiore discontinuità che il Piano Sud prevede è proprio il rafforzamento dei presidi centrali, non in una logica centralista, ma in una chiave anche di servizio alle amministrazioni territoriali.
E allora veniamo al Piano Sud. A febbraio, poco prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria, avete presentato il Piano Sud 2030, è ancora valido? Deve essere aggiornato?
Oggi quel Piano è ancora più valido, le misure le avevamo individuate, a cominciare dalla scuola, dalla sanità territoriale, dalla digitalizzazione e connettività, dalla sostenibilità dello sviluppo. Sono tutte questioni che la pandemia ci ha mostrato in tutta la loro drammatica attualità. E in quel Piano ci sono anche misure urgenti per l’impresa e per il lavoro che sono in parte state attuate in questi mesi. Più in generale quel Piano ha rappresentato un argine per impedire ciò che è sempre accaduto durante le crisi, e cioè che misure congiunturali fossero finanziate con risorse destinate a investimenti nel Sud. Questa volta persino la riprogrammazione dei fondi strutturali si è fondata sul rispetto ossequioso del vincolo di destinazione territoriale. Non serve solo al Mezzogiorno, serve all’Italia. Le stime della Svimez dimostrano che un investimento al Sud è maggiormente in grado di attivare reddito e occupazione in tutto il Paese.
Il governo sta elaborando il Recovery plan, secondo la Cgil la cura delle persone, del territorio e dell’ambiente dovrebbe essere la direttrice di marcia per cambiare modello economico e di sviluppo. Quale il ruolo del Mezzogiorno?
Le direttrici di marcia che la Cgil auspica sono quelle che il governo ha condiviso con la Commissione Europea: innovazione, sostenibilità, inclusione sociale. Tutto questo ha una profonda caratterizzazione territoriale, per quanto riguarda in primo luogo il Mezzogiorno, dove sui tempi della sostenibilità, per una volta, quell’area può stare, non dico un passo avanti, ma sicuramente non deve stare a rincorrere il resto del Paese. Questo ci consente anche di affrontare questioni spinose per le quali però passa un recupero di competitività dell’intero Paese. Decarbonizzare l’Ilva, ad esempio, serve a posizionare meglio l’Italia sulla frontiera della produzione industriale europea. Tutto questo significa Mezzogiorno, ma non solo. Il tema dei divari territoriali da anni si è complicato, accanto alla questione meridionale se ne è aperta una appenninica, esiste il tema delle periferie, delle aree interne. Tutto questo deve essere oggetto del modo in cui il Recovery Fund si cala sui territori. Ecco perché è essenziale, accanto all’opera di programmazione che dovremmo fare, avviare da subito un processo che coinvolga tutti i livelli istituzionali e soprattutto le parti economiche e sociali, l’impresa e il lavoro, che sono la premessa e la conclusione di ogni piano di sviluppo. Sul Mezzogiorno abbiamo iniziato a farlo nei giorni scorsi, ci sono stati incontri importanti con il sindacato e con le rappresentanze delle imprese. L’unica assente è stata Confindustria, spero che il nuovo corso non smarrisca il percorso di condivisione che invece proprio su questi temi negli anni scorsi si era determinato.
Povertà economica, povertà educativa, povertà dei servizi: il piano messo a punto dal governo come pensa di affrontare queste emergenze?
Queste le priorità del Piano Sud 2030 che ora sono state recepite nel Recovery Fund e sono già nel Piano Nazionale di Riforma, ma tutto l’asse dell’inclusione sociale deve guardare a questo nella consapevolezza che non risponde solo a una esigenza di giustizia, che pure non è cosa da poco, ma risponde alla necessità di recuperare competitività dell’intero sistema, liberando il potenziale di sviluppo di ogni persona in ogni luogo.
I tempi del Recovery Fund ci dicono che le risorse arriveranno a metà del 2021. Se mettiamo insieme il crollo dell’occupazione, il crollo demografico, l’impoverimento dell’offerta industriale, si può aspettare fino ad allora?
Non stiamo mica aspettando, abbiamo mobilitato oltre 100 miliardi di risorse già quest’anno, in pochi mesi abbiamo fatto quello che solitamente si fa in 4°5 esercizi finanziari. La ripresa degli investimenti è in corso anche con risorse nazionali. Per altro, non possiamo correre il rischio che le risorse europee diventino sostitutive di quelle ordinarie. Siamo determinati ad andare avanti, la difficoltà sta nel fatto che abbiamo uno Stato che aveva disimparato a spendere. Oggi spendere e spendere bene diventa l’imperativo.
Decontribuzione, questo è uno degli interventi sui quali ci si sta concentrando. Nel passato non ha dato i frutti sperati, non sarebbe il caso di introdurre condizionalità che premino davvero chi investe nel territorio e non lo abbandonerà quando i contributi si esauriranno?
L’unico paragone con il passato può essere fatto con la fiscalizzazione degli oneri sociali durante l’intervento straordinario. L’errore in quella occasione fu che quella misura si mangiò gli investimenti. Adesso non corriamo questo rischio. La decontribuzione è un tassello di una strategia generale, la priorità restano gli investimenti, resta la cornice del Piano Sud per recuperare produttività. Ciò a cui serve la riduzione degli oneri contributivi è anticipare e accompagnare e moltiplicare gli effetti sul piano dell’occupazione sia per contenere quella voragine occupazionale di cui abbiamo parlato all’inizio, sia soprattutto per scongiurare l’ipotesi di ripresa senza lavoro. È una partita non ancora chiusa, nei prossimi giorni ci sarà un negoziato con la Commissione e lì verificheremo la necessità di inserire ulteriori condizionalità. Credo che questa misura coincida proprio con il tempo necessario a quell’opera di investimento pubblico e di rilancio degli investimenti privati che modifica effettivamente il contesto. Infatti la decontribuzione dovrebbe finire con il nuovo ciclo di programmazione. Mi preme sottolineare che mai come in questo momento siamo riusciti a mobilitare risorse per il Sud. Oltre a quelle del Recovery Fund, nelle pieghe finali del negoziato abbiamo ottenuto molte più risorse per le politiche di coesione attraverso i fondi strutturali e nel Piano Nazionale di Riforme abbiamo aumentato il fondo sviluppo e coesione a circa 73 miliardi
Investimenti appunto, sia pubblici che privati, oggi, però, disincentivati dal costo burocratico, dal costo dell’energia e dal deficit di infrastrutture. Come si superano questi tre costi?
Traducendo in fatti tutte quelle risorse e i progetti che stiamo mettendo in campo. Questo rende indispensabile domandarci se la nostra macchina pubblica è attrezzata a questo processo di allargamento delle sue funzioni. Credo che non siamo attrezzati ma che possiamo farlo in fretta, coinvolgendo anche le imprese pubbliche portatrici di una grande capacità realizzativa. E poi soprattutto rigenerando la macchina pubblica. Abbiamo semplificato, non basta. Avevo proposto, lo rifarò, di utilizzare le risorse europee anche per reclutare quelle alte professionalità che consentirebbero alla macchina pubblica di recuperare ad ogni livello quella capacità progettuale e realizzativa che negli ultimi decenni abbiamo perso. Questo è forse il più grande investimento di cui ora abbiamo bisogno.