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Per il rotto della cuffia e sancendo un ulteriore vulnus alla Costituzione, il Parlamento ha definitivamente approvato la manovra per il 2025, tre giorni prima della scadenza pena l’esercizio provvisorio e senza che il Senato potesse nemmeno lontanamente e velocemente esaminare i testi, tanto che il relatore, di Fratelli di Italia, si è dimesso denunciando la finzione dell’esame del testo. La nostra Costituzione, però afferma che l’Italia è una Repubblica parlamentare e che il parlamento è costituito da due camere che hanno la stessa titolarità sul processo legislativo. Peccato non sia più così, il governo Meloni, a botte di decreti e voti di fiducia, ha spostato sull’esecutivo anche il processo legislativo.
Una manovra che fa male al Paese
Sono 22 mesi consecutivi di declino industriale, lo dice l’Istat. La previsione di crescita del governo e sulla base della quale si son scritti i conti del Paese è sbagliata, quella reale è la metà: 0,5% lo attesta sempre Istat e lo conferma Banca di Italia. Aumentano le ore di cassa integrazione e le crisi aziendali. Questa è la realtà mentre Meloni racconta un Paese che non esiste e la manovra non fa nulla per invertire questa tendenza. Il commento di Christian Ferrari, segretario nazionale della Cgil, al voto di Palazzo Madama è netto: “Il Senato della Repubblica ha approvato la fiducia su una manovra di bilancio che non contiene un solo provvedimento in grado di invertire il declino economico del Paese e la crescita anemica del Pil che, secondo le ultime stime dell’Istat, aumenterà nel 2024 della metà rispetto a quanto previsto nel Piano strutturale di bilancio, e di 0,4 punti percentuali in meno nel 2025”.
Una manovra di tagli
Sì, solo tagli a tutto ciò che è pubblico. Alla sanità, si certifica il passaggio dal 6,3% del Pil del Fondo Sanitario del 2024 al 5,9 del 2027. All’istruzione, oltre 5000 insegnanti tagliati e oltre 2000 posti per il personale Ata in meno, mentre passa il contributo per le famiglie che iscrivono i figli e le figlie a scuole private (se lo fanno evidentemente possono permetterselo). E poi tagli gli enti locali, 4,5 miliardi in meno per pagare gli stipendi dei dipendenti comunali e regionali, le utenze e le spese di funzionamento degli uffici. Ma non solo: anche per pagare la manutenzione delle strade o del verde pubblico e per erogare servizi di welfare locale. Ferrari è netto: “I tagli lineari alla spesa pubblica e agli investimenti comprimeranno ancor di più la domanda interna e impediranno di mettere in campo una politica industriale all’altezza della sfida cruciale che abbiamo di fronte: la transizione digitale, energetica ed ecologica del nostro sistema produttivo”.
Le conseguenze dei tagli
È sempre Ferrari a illustrare le conseguenze di questa manovra asfittica e austera: “Se l’esecutivo proseguirà con le politiche di austerità (si tagliano oltre 14 miliardi di euro nel triennio 2025-2027 ai ministeri, all’Istruzione, alla Ricerca, a Regioni ed Enti locali, e si definanzia pesantemente il Servizio sanitario nazionale, ndr) e rinuncerà a una vera strategia di politiche industriali per difendere e rilanciare occupazione e capacità produttiva, le conseguenze sono facilmente prevedibili. Si moltiplicheranno le crisi aziendali e i livelli occupazionali ne risentiranno in maniera significativa”.
Manovra sbagliata anche per quel che c’è
Un premio alle imprese private, arriva infatti l’Ires premiale, sarà ridotta di 4 punti per chi accantona almeno l’80% degli utili del 2024 e ne reinveste in azienda almeno il 30% (e non meno del 24% degli utili del 2023). Per il segretario nazionale della Cgil “la diminuzione dell’aliquota Ires riguarderà le poche imprese non in difficoltà. Si tratta di una scelta di impatto marginale, ma comunque rivelatrice dell’approccio del governo: mentre lavoratori dipendenti e pensionati pagheranno, a causa del drenaggio fiscale, un maggior gettito Irpef di ben 17 miliardi nell’anno in corso, alle imprese che hanno aumentato a dismisura i profitti si continuano ad abbassare le imposte”.
La manovra del cuneo fiscale
Si rende stabile la riduzione del cuneo fiscale che i sindacati avevano conquistato con mobilitazione e scioperi all’epoca del governo Draghi. Peccato che Meloni e Giorgetti nel trasformalo in stabile abbiano sbagliato a far di conto e alla fine non un euro in più in busta paga rispetto al 2024 e anzi qualcuno ci rimetterà. A conti fatti correttamente risulta, da uno studio della Cgil nazionale e il Consorzio Caaf Cgil, che tutti i redditi sotto i 35 mila euro previdenziali avranno nel 2025 una riduzione del netto in busta paga rispetto al 2024 (tranne il reddito di 25.500 euro che registra un modestissimo incremento). Inoltre, paradosso dei paradossi, le maggiori perdite si concentrano su tre redditi: 15.500, 16 mila e 16.500 euro, proprio i più bassi.
Una manovra contro il Sud
Riduzione della decontribuzione e non solo. Ma quel che più stride è che si continuano a sottrarre risorse destinate al Mezzogiorno per finanziare un’unica infrastruttura: il famigerato Ponte sullo stretto. Chiosa il dirigente sindacale: “C’è l’ennesimo saccheggio alle risorse per lo sviluppo e la coesione, 3,88 miliardi di euro, per finanziare il Ponte sullo Stretto. Il fondo, destinato a ridurre i divari territoriali e rilanciare il Mezzogiorno, viene ormai utilizzato da Palazzo Chigi come un bancomat cui ricorrere a piacimento”.
Una manovra per le famiglie?
Una manovra a misura di famiglia? Così dice Meloni, ma tra i racconti e la realtà ce ne corre. Tutto quel che c’è in legge di bilancio sono bonus e una tantum, certo meglio che niente ma di strutturale quasi nulla. Tanto meno una politica salaria degna di questo nome. Il nuovo arrivato è “bonus nuove nascite”, un’una tantum da mille euro per ogni nuovo nato in nuclei con Isee sotto 40mila euro. Viene esteso a tutti e reso strutturale il bonus nido (sempre per con Isee fino a 40mila euro). Peccato che i nidi non ci siano soprattutto nelle regioni meridionali dove ce ne sarebbe più bisogno, non ci sono e si è deciso di non crearli. Si allargano i congedi parentali all’80%, per tre mesi invece degli attuali due. Arriva il fondo “Dote famiglia” per le attività extra-scolastiche dei giovani da 6 a 14 anni in nuclei con Isee fino a 15 mila euro.
Una manovra che privatizza
La sanità, l’istruzione, il welfare, la mobilità locale, le pensioni. Tutto il privatizzabile, surrettiziamente, viene avviato sulla strada delle privatizzazioni. Financo, appunto, le pensioni. Per evitare – affermano dalle parti del ministero del Lavoro – che chi comincia a lavorare ora abbia pensioni da fame, li si obbliga a versare il 25% del Tfr, che ricordiamo è salario differito, in fondi pensione privati. Dovrebbe essere, invece il governo a predisporre una riforma della previdenza in grado di fronteggiare precarietà e bassi salari di ingresso attraverso contributi figurativi. Ma così lo Stato farebbe lo Stato ed è ciò che non vuole Meloni. Aggiunge il segretario della Cgil: “Neppure in questa legislatura ci sarà alcuna modifica della Legge Monti-Fornero, che intanto sono riusciti a peggiorare”.
Chi paga la manovra
Lo dice Ferrari: “Le nuove generazioni, che soffrono sulla loro pelle una precarietà sul lavoro che il governo aggrava anziché risolvere, continueranno a lasciare il nostro Paese per cercare opportunità di realizzazione all’estero”. E poi “lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, che hanno sopportato un brutale impoverimento causato da un’inflazione da profitti cui non è stato posto alcun rimedio, subiranno anche gli effetti dell’indebolimento di un welfare sempre meno pubblico e meno universalistico”.
Chi si giova della manovra
“I soli a guadagnarci – sottolinea il dirigente sindacale – saranno: chi sta accumulando profitti, grandi patrimoni e rendite; chi opera nel settore militare (l’unico capitolo di spesa che crescerà, da qui al 2039, di ben 35 miliardi, circa 3 miliardi in media all’anno) e gli evasori, per i quali viene escogitato ogni strumento possibile e immaginabile per consentirgli di non pagare il dovuto al fisco”. Le conseguenze delle scelte del governo sono inevitabili: “Tutto questo lo abbiamo denunciato con lo sciopero generale dello scorso 29 novembre. E non abbiamo alcuna intenzione di fermarci. Continueremo a batterci per ottenere risposte per le persone che rappresentiamo e per cambiare le politiche inique e fallimentari dell’esecutivo”.