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Se l’Europa va male, l’Italia va peggio. E se l’Europa cresce? Allora noi cresciamo di meno. Questo almeno per quanto riguarda stipendi e posti di lavoro nel nostro Paese, secondo l’importante ricerca “Salari e occupazione in Italia nel 2021. Un confronto con le principali economie dell’Eurozona”, realizzata dalla Fondazione Di Vittorio sulla base degli ultimissimi dati dell’Ufficio statistico dell’Unione Europea (Eurostat) e del ministero dell’Economia.
Partiamo da una (parziale) buona notizia: nel 2021 il salario lordo annuale medio è aumentato, passando da 27,9 mila euro del 2020 a 29,4 mila. Una crescita, ovviamente, dovuta al fatto che nel primo anno della pandemia (appunto, il 2020) l’Italia aveva sofferto una rilevante diminuzione delle buste paga.
Ma le buone notizie finiscono qui. I salari, nonostante l’incremento straordinario del Pil, sono rimasti sotto il livello di prima della pandemia (-0,6%). Ma soprattutto si è allargato ancora di più il divario con le retribuzioni francesi e tedesche: la differenza con la Francia è passata da 9,8 mila a 10,7 mila euro, quella con la Germania da 13,9 mila a 15 mila euro.
E comunque stiamo ampiamente al di sotto della media dell’Eurozona. I numeri sono impietosi: se nel nostro continente il salario medio si attesta a 37,4 mila euro lordi annui, in Francia supera i 40,1 mila euro e in Germania arriva oltre i 44,5 mila, in Italia si ferma a 29,4 mila.
“La differenza in cifra assoluta fra i salari medi italiani e quelli di Francia e Germania aumenta ulteriormente, rispetto alla fase pre-pandemica, di circa 1.000 euro lordi annui”, spiega il presidente della Fondazione Di Vittorio Fulvio Fammoni: “Si conferma che quando in Europa diminuiscono salari e occupazione, in Italia calano di più; quando invece aumentano, in Italia crescono di meno”.
Gli stipendi italiani, insomma, sono fermi. Una stagnazione che affligge il Paese da decenni, e che è legata a più fattori. “In questa ricerca – prosegue Fammoni – affrontiamo il tema attraverso la lettura della composizione e della condizione degli occupati dipendenti, frutto di scelte sicuramente non adeguate del modello di sviluppo e produttivo”.
Entriamo nel merito: l’Italia, a differenza delle principali economie europee, si caratterizza per la maggiore partecipazione di lavoratori poco qualificati e per la ridotta presenza delle professioni più qualificate. Nel 2021 abbiamo registrato una bassa quota sia di dirigenti (1,4%, nell’Eurozona siamo al 3,8) sia di professioni intellettuali e scientifiche (13,6%, nell’Eurozona siamo al 21,3). E ancora: in Italia la quota delle professioni non qualificate è del 13%, in Europa è appena del 9,9.
La ricerca della Fondazione Di Vittorio (realizzata dall’economista Nicolò Giangrande) ci fornisce un’ulteriore chiave di lettura, legata al vasto fenomeno della precarietà. I dipendenti con contratti a termine sono il 16,6% del totale (in Francia sono il 15, in Germania appena l’11,4), mentre la quota degli occupati con part-time involontario tocca l’esorbitante cifra del 62,8%, quasi il triplo dell’Eurozona (23,3).
“La piaga dei bassi salari – argomenta la segretaria confederale Cgil Francesca Re David – può essere sconfitta solo attraverso il lavoro di qualità, che vuol dire innanzitutto combattere il lavoro precario, purtroppo da anni in costante crescita con il record dei contratti a tempo determinato. Significa inoltre contrastare il part-time involontario, che fra l'altro in alcuni settori prevede un numero bassissimo di ore”.
Un ultimo dato utile all’analisi della Fondazione viene dalle dichiarazioni fiscali. I lavoratori che hanno denunciato soltanto un reddito da lavoro dipendente (o anche associato a un reddito da fabbricati/terreni) nel 2021 sono diminuiti di oltre 185 mila unità (rispetto al 2020). Sempre l’anno scorso, infine, un dipendente su quattro ha dichiarato meno di 10 mila euro e quasi tre dipendenti su quattro fino a 26 mila euro, vale a dire meno del salario lordo annuale medio (che, lo ricordiamo, è di 27,9 mila euro).
“Sulla media salariale – illustra il presidente della Fondazione Di Vittorio – incidono moltissimo i 5,2 milioni di lavoratori dipendenti che nella dichiarazione dei redditi del 2021 hanno denunciato meno di 10 mila euro annui. Se nessun dipendente ricevesse un salario annuo inferiore a 10 mila euro lordi, si otterrebbe immediatamente un recupero significativo rispetto alle medie salariali degli altri Paesi”.
La ricerca, dunque, mostra un quadro salariale in peggioramento rispetto ai principali Paesi europei, su cui incidono sia la forte discontinuità lavorativa sia la maggiore presenza delle qualifiche più basse. Caratteristiche di un sistema produttivo con una scarsa propensione all’innovazione, orientato a guadagnare competitività attraverso la riduzione dei costi di produzione, in primis la compressione dei salari.
L’inequivocabile segnale della debolezza strutturale della domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane è anche rappresentata dal crescente peso dell’occupazione a termine e del part-time involontario, due condizioni che i lavoratori e le lavoratrici subiscono e non scelgono.
“Occorre – conclude la segretaria confederale Cgil Francesca Re David – rinnovare i contratti collettivi nazionali e recepire la direttiva europea sul salario minimo da definire attraverso il trattamento economico complessivo dei ccnl firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. Infine, è fondamentale una legislazione che sostenga la contrattazione”.