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Due numeri, apparentemente non connessi tra di loro, in realtà fotografano meglio di altri e di tante parole la crisi profonda che attraversa il Paese e impongono a ciascuno, decisori politici, economisti ed esperti, parti sociali e società civile organizzata un’assunzione di responsabilità e azioni conseguenti.
Nel corso dell’anno che abbiamo alle spalle 312mila donne hanno perso il lavoro (contro 132mila uomini). Sono 300 mila i nati in meno rispetto ai decessi nei primi 10 mesi del 2020. Sono dati forniti dall’Istat in due diverse rilevazioni, quella su occupazione e disoccupazione e quella sulla demografia. Ma vanno letti insieme. Fintanto che non si affronterà di petto la questione dell’occupazione femminile, quella demografica non troverà soluzione. Fintanto che alla nascita del primo figlio quelle che il lavoro ce l’hanno continueranno a lasciarlo o saranno costrette a farlo, le culle saranno sempre più vuote. È un problema economico e sociale, ma è anche questione che riguarda la libertà e il desiderio femminile. È questione di democrazia.
L’Italia è agli ultimi posti tra i paesi dell’Europa a 27 per occupazione femminile, noi siamo al 48,5% contro una media degli altri paesi del 62,5%. Non solo, per quanto riguarda l’occupazione sia delle giovani tra i 25-29, che tra 30-34 siamo proprio ultimi. I dati di dicembre non fanno altro che confermare questa classifica: su 110mila posti persi 99mila erano occupati da donne. Secondo Susanna Camusso, responsabile politiche di genere della Cgil “l’occupazione femminile, in particolare delle giovani, è emergenza nazionale sociale ed economica. Servono risposte immediate e forti”. E aggiunge la dirigente sindacale: “Con buona pace delle destre, la disoccupazione delle giovani è uno straordinario anticoncezionale, che non solo abbatte il tasso di natalità, ma costruisce frustrazione e assenza di partecipazione. È la dimostrazione che la marginalizzazione di metà del mondo, oltre che problema economico, è anche problema democratico”.
Perché in Italia lavorano poche donne e perché sono loro che in questa crisi perdono occupazione? I settori ad alta intensità di occupazione femminile sono quelli del terziario e dei servizi alla persona. E già qui cominciano i problemi: nel 2019 gli occupati in sanità, istruzione, assistenza sociale, pubblica amministrazione erano 79 per mille abitanti. Anche in questo caso il paragone con l’Europa fa arrossire. Lì la media è di 116. Vogliamo entrare nel dettaglio? Per quanto riguarda l’assistenza sociale siamo a 10 contro 22, per la sanità a 22 contro 29, per l’istruzione a 26 contro 35 e per la Pa a 21 contro 31. E poi ci sono le addette al turismo, alle mense, alle pulizie e potremmo continuare. Settori colpitissimi dalla pandemia e settori dove contratti precari e part-time involontario sono la norma. Ma questi, il terziario e i servizi alla persona, sono gli ambiti che garantiscono il benessere dei cittadini e delle cittadine, sono quelli della cura e della riproduzione sociale.
Secondo Banca d'Italia l’aumento dell’occupazione femminile porterebbe con se, oltre a tutto il resto, un aumento di 7 punti di Pil, visto che i punti persi nel 2020 si attesteranno attorno a 8,8: non fosse altro che per ragioni economiche non sarebbe il caso di investirci? Ma non è solo questione di economia, ma appunto di benessere sociale e di democrazia. Quale occasione migliore del Nex Generation Eu e del Piano di ripresa e resilienza? E non si tratta solo, e già sarebbe non poca cosa, di pensare a progetti specifici per promuovere l’occupazione femminile. Si tratta, così pensano diverse reti di donne che in queste settimane stanno avanzando proposte dettagliate, di cambiare paradigma passando dal produrre e dal consumo alla cura come punto di vista da cui partire. E non riguarda solo i servizi per la conciliazione che favoriscono occupazione femminile, o le “persone”. L’Europa vincola il 57% delle Risorse del Nge per la predisposizione dei Piani nazionali, a digitale e green. Bene, basta pensare a cosa significa transizione energetica e sostenibilità ambientale osservata dal punto di vista della cura dell’ambiente, del territorio, delle città. E poi, certo, occorre costruire infrastrutture ma lo si può fare appunto ponendosi da diversi punti di vista. E le infrastrutture sono quelle materiali e quelle sociali.
Donne per la salvezza – Hailf of it - rete di associazioni di donne, tra queste anche Cgil Cisl e Uil, economiste, statistiche, accademiche, manager - ha redatto un Manifesto, Idee per una ripartenza alla pari, per fornire a governo e istituzioni obiettivi e progetti concreti per incrementare l’occupazione femminile. L’obiettivo dichiarato è quello di portare in 5 anni l’Italia ai livelli della media europea. Si tratta di 5 punti percentuali. Come? “Incrementando gli investimenti in infrastrutture sociali a partire da 7 miliardi per gli asili nido e incrementando tutti i servizi alla persona a cominciare dal welfare di prossimità. Servono poi strategie formative per accompagnare le ragazze nella scelta delle materie tecnico scientifiche (Stem) e contemporaneamente occorre contrastare gli stereotipi di genere. Occorre sostenere l’imprenditoria femminile”. Secondo l’associazione oltre ai progetti veri e proprio serve anche “metodo”, per ottenere risultati è necessario: “Governance paritaria, valutazione di impatto di genere ex ante ed ex post e monitoraggio in corso d’opera”.
Susanna Camusso insiste su un punto: “L’economia della cura è la grande assente del dibattito politico, non viene nemmeno vista perché la cura è privatizzata, delegata alle famiglie cioè al lavoro gratuito delle donne. La riproduzione, però, non è questione esclusivamente privata, è una responsabilità sociale”.