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Da oggi, lunedì 3 giugno, scatta il cosiddetto “giorno di liberazione fiscale”. Una scadenza che da almeno quattro lustri, grazie all’annuale elaborazione effettuata dall’Ufficio studi della Cgia, per molti italiani è il raggiungimento di un traguardo importante, anche se puramente simbolico. Siano essi partite Iva, lavoratori dipendenti, pensionati o imprese. “In linea meramente teorica – si legge nella nota dell’associazione – da oggi lavoreremo per soddisfare i nostri bisogni e non più per pagare le tasse, le imposte, i tributi e i contributi sociali previsti nel 2024”.
Un gettito che per l’erario dovrebbe garantire 909,7 miliardi di euro. Risorse che “sono indispensabili allo Stato per far funzionare le scuole, gli ospedali, i bus, i treni, gli uffici pubblici e per pagare le pensioni, gli stipendi agli statali e ai dipendenti degli enti locali. In altre parole, sono soldi che le Amministrazioni pubbliche prima incassano, poi investono nei servizi, nel welfare, nelle infrastrutture sociali ed economiche per migliorare la qualità della vita di ognuno di noi”.
Un fisco “eccessivo”
Ma il carico fiscale che continua a gravare sugli italiani rimane “eccessivo”, rileva la Cgia, sebbene quest’anno la pressione fiscale sia destinata a scendere di 0,4 punti percentuali rispetto al 2023. Sono stati necessari ben 154 giorni di lavoro (sabati e domeniche inclusi) per adempiere a tutti i versamenti fiscali previsti quest’anno (Irpef, Imu, Iva, Irap, Ires, addizionali varie, contributi previdenziali/assicurativi, etc.). “Rispetto al 2023 – rileva comunque la Cgia – quest’anno ci ‘liberiamo’ dal fisco un giorno prima, anche se da calendario sono due, poiché il 2024 è un anno bisestile”.
Ferrari, Cgil: “Retorica antitasse pericolosa”
“Per essere coerenti, nel ‘Giorno di liberazione fiscale’ bisognerebbe, contemporaneamente, auspicare la liberazione dalla Sanità pubblica, dall’Istruzione garantita a tutti a prescindere dal reddito, dai servizi sociali, dalla realizzazione e dalla manutenzione delle infrastrutture che servono sia ai cittadini che al sistema produttivo”. Così il segretario confederale della Cgil Christian Ferrari. “La retorica antitasse – aggiunge – spesso nasconde le conseguenze che deriverebbero da una generalizzata riduzione della pressione fiscale e chi ne pagherebbe il prezzo più salato: i lavoratori e i pensionati. Verrebbe infatti minata alla base la sostenibilità del welfare pubblico e universalistico”.
Per Ferrari “investire su salute, scuola, non autosufficienza vale, in termini monetari, molto più di un rinnovo ricco del contratto collettivo di lavoro. E sono proprio i suddetti diritti che la logica della delega fiscale votata dal Parlamento mette in discussione, prevedendo meno progressività, meno fedeltà fiscale, meno risorse per il welfare”.
Una controriforma regressiva
“Il nostro Paese, in vista della prossima manovra di bilancio, si troverà – continua Ferrari – di fronte a un bivio: andare a prendere i soldi dove sono (extra profitti, evasione fiscale, grandi patrimoni: non dimentichiamo che il 10% della popolazione italiana detiene il 60% della ricchezza), oppure tagliare ulteriormente la spesa pubblica e, in particolare, quella sociale”.
La Cgil è pronta alla mobilitazione “per evitare che a essere colpiti siano ancora una volta i redditi fissi, gli unici a rispettare i propri doveri con il fisco, e proporremo, insieme alla Uil, una riforma giusta che rispetti fino in fondo l’articolo 53 della Costituzione: ‘Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività fiscale’”.
Italia, eurotartassata
In Italia continuiamo ad avere un livello di pressione fiscale tra i più elevati in Ue. Solo la Francia, il Belgio, la Danimarca e l’Austria hanno registrato un peso fiscale superiore al nostro. Se a Parigi la pressione fiscale era al 45,8 per cento del Pil, a Bruxelles si è attestata al 45,3 per cento, a Copenaghen al 44,5 per cento e a Vienna al 42,9 per cento. “Da noi, invece – sottolinea la – ha toccato la soglia del 42,5 per cento. Tra i 27 dell’Ue, l’Italia si è piazzata al quinto posto. La Germania, invece, si è posizionata al decimo con una pressione fiscale del 40,6 per cento e la Spagna al tredicesimo con il 37,8 per cento. La media dei Paesi europei è stata del 40,3 per cento; 2,2 punti in meno della media italiana”.