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Acquisito il “compromesso storico” di Bruxelles, diventa urgente decidere il “che fare” con i finanziamenti e le aperture di credito dell’Ue, evitando elenchi lunghissimi, ma quasi mai corredati di un sommario operativo che metta in fila priorità e strategie, come nel caso del lungo rosario dei cento e passa punti del piano Colao.
Il Rapporto annuale 2020 dell’Istat, uscito ai primi di luglio, fornisce numerosi spunti pere questa impresa: 250 e passa pagine corredate di numeri in gran parte inediti, relativi a un ampio ventaglio di argomenti caldi “ai tempi del Covid” (congiuntura, redditi, lavoro, retribuzioni, sanità, ambiente, istruzione, fecondità) e che restituiscono incognite e interrogativi anche pesanti sul domani che è già oggi. Quello di quest’anno poi è un rapporto molto sociologico (e dunque molto economico), dal momento che fotografa l’insieme ampio e articolato delle connessioni che governano l’evoluzione della società e del benessere che sa garantire. Volendo provare a gettare qualche ponte fra questi piloni piantati dall’Istat, si intravedono dei fili conduttori molto netti e ben intrecciati fra loro e che mettono in relazione la fragilità del sistema produttivo e le diseguaglianze che lo caratterizzano.
La fragilità dunque. Come è possibile che sistemi economici che si autodefiniscono avanzati si siano rivelati così fragili da finire knockdown per un lockdown? L’analisi di questa debacle, contenuta nel primo capitolo del rapporto, diventa interessante oltre che per leggere il passato recente anche per cercare di intuire il dopo. Nel secondo trimestre di quest’anno gli indicatori economici di molti settori e dell’occupazione sono andati pesantemente giù, anche a doppia cifra, con alcune eccezioni ovviamente. In parte risaliranno, anche rapidamente, ma nel frattempo che cosa è cambiato? Quale scenario è auspicabile? Nei prossimi mesi l’andamento congiunturale del fatturato, degli ordinativi e del valore aggiunto dei vari settori andrà confrontato proprio con quello che è successo nei mesi di lockdown. C’è dunque da seguire nel tempo, col senno del Covid, le dinamiche del sistema economico in questo periodo “non ordinario”, sia per intercettarne i mutamenti strutturali sia soprattutto per anticiparli, indirizzarli e trasformarli in opportunità.
Il tema della fragilità è stato condito dall’apparente paradosso dato dal fatto che col Covid è scesa la disoccupazione (adesso sta già risalendo): ciò è successo perché quasi nessuno cercava attivamente lavoro, condizione necessaria per essere definito disoccupato, ed è così esploso l’esercito dei cosiddetti inattivi. È il fallimento di un indicatore (il tasso di disoccupazione), ma è come prendersela col postino quando ti porta la multa. Il punto vero è che il crollo della disoccupazione durante il Covid è solo l’ennesima riprova della fragile informalità del nostro mercato del lavoro e del fallimento dei meccanismi di ingresso e avviamento al lavoro. Arrivato il Covid non è rimasto più quasi niente, mentre la realtà è determinata da un’offerta di lavoro che è più ampia e disallineata rispetto a quella che il nostro mercato sa vedere e assorbire.
L’analisi “classica” della diseguaglianza racconta poi di un aumento negli ultimi anni della disuguaglianza a sfavore delle famiglie costituite da persone in cerca di occupazione, operai, lavoratori in proprio, indipendenti, residenti nel Mezzogiorno, giovani. Ma, si badi bene, le analisi sulla distribuzione dei redditi sono per definizione (e per assurdo, nell’era dei big data) incomplete dal momento che sottostimano molti redditi di capitale (e in particolare quelli finanziari) e i redditi sommersi. Questo per dire che le effettive asimmetrie nella distribuzione dei redditi sono nella realtà ancora maggiori di quelle misurate attualmente. A questa tendenza si ricollegano le disuguaglianze di salute, tra gruppi sociali e territori, messa ulteriormente a nudo dalla vicenda Covid. L’Istat fa notare come i più consistenti incrementi dei tassi di mortalità si sono determinati nelle fasce di popolazione più svantaggiate, che già sperimentavano livelli di mortalità più elevati. Bassa istruzione, povertà, disoccupazione e precarietà influiscono negativamente sulla salute e sono correlati al rischio di insorgenza di molte malattie. Il Covid non ha fatto altro che amplificare le diseguaglianze preesistenti, con un maggiore impatto sulle persone con basso titolo di studio, non necessariamente anziane. E questo in un contesto in cui i tagli alla spesa sanitaria e la scelta di concentrarla sull’assistenza ospedaliera hanno fatto sì che che la sanità pubblica non sia riuscita ad assicurare uniformità di salute e di accesso alle cure sul territorio e per tutte le categorie sociali. Al rallentamento della componente pubblica ha perciò corrisposto negli anni una crescita più sostenuta della spesa privata delle famiglie e la diminuzione del personale, con un turnover insufficiente e con il blocco delle procedure contrattuali.
Diseguaglianze e vulnerabilità sono poi i connotati per antonomasia del lavoro sommerso. Gli occupati non regolari, stima l’Istat, rappresentano il 13,1% dell’occupazione totale: una enormità, circa 3,3 milioni di individui che generano circa il 4,5% del Pil (12,1% se si aggiunge anche l’evasione fiscale). Il rapporto annuale evidenzia come l’occupazione non regolare è essenzialmente una occupazione di necessità, orientata a garantire il necessario complemento di redditi regolari insufficienti o nulli. Gli individui con redditi regolari personali e familiari trascurabili costituiscono infatti circa un sesto dell’occupazione non regolare e hanno un tasso specifico di irregolarità elevatissimo, vicino al 50%. Quasi la metà dei non regolari proviene dalla schiera di quanti dichiarano al fisco qualche reddito da lavoro dipendente regolare: si tratta di cifre modeste, dal momento che i loro redditi corrispondono a circa la metà rispetto a quelli degli occupati regolari. La relazione fra vulnerabilità dell’occupazione non regolare e vulnerabilità del mondo regolare (contratti di lavoro instabili, precarietà, part-time involontario) viene chiaramente allo scoperto.
Del resto, economia regolare e non regolare lungi dall’essere disgiunte sono molto collegate sia dal punto di vista del lavoratore (l’osmosi fra lavoro sommerso ed emerso è ben evidenziata dall’Istat) sia dal punto di vista del funzionamento del sistema economico. Il peso così elevato dell’occupazione sommersa non solo è un tratto caratteristico della struttura economica italiana ma lo è soprattutto perché è collegato con la qualità che esprime la dimensione regolare dell’economia, che dall’esistenza di una parte sommersa trae sovente beneficio. La difficoltà che incontrano le azioni di contrasto al lavoro sommerso (la tormentata vicenda dell’art.103 del “decreto rilancio” insegna) indicano quanto questa forma estrema di precarizzazione sia a suo modo funzionale alla parte regolare dell’economia tanto da giustificare una sostanziale inerzia: il sommerso tiene basso i prezzi agricoli, rende inutili le azioni di razionalizzazione delle filiere, tiene bassi i prezzi dei prodotti intermedi acquistati dalle imprese “virtuose”, tiene basse le retribuzioni, consente di essere competitivi senza dovere necessariamente innovare, tiene bassi i diritti. Al costo ovviamente di accrescere le diseguaglianze, gli squilibri e le fragilità del sistema.
Le diseguaglianze si riflettono inoltre nella scarsa mobilità sociale, che negli ultimi anni è peggiorata: qui l’Istat rileva come la quota di persone mobili in senso discendente supera ormai quella con mobilità ascendente, invertendo una tendenza che aveva contraddistinto tutta la seconda parte del secolo scorso. I passaggi di classe verso il basso hanno riguardato soprattutto i figli dei lavoratori autonomi che dapprima si dirigono verso le figure operaie e successivamente anche verso le occupazioni a bassa qualificazione del terziario. Il rapporto sottolinea il fatto che l’Italia si caratterizza per “una scarsa fluidità sociale” poiché le origini condizionano le chance di occupare posizioni socialmente vantaggiose e i rischi di rimanere intrappolati in situazioni di svantaggio. L’ereditarietà sociale è ancora elevata e le disparità collegate alle classi si accompagnano a quella tra le generazioni. Il tema dell’istruzione è poi emblematico. Un po’ perché, documenta l’Istat, l’Italia presenta livelli di scolarizzazione tra i più bassi dell’Ue; ma anche a causa del divario nella qualità dell’insegnamento tra le scuole secondarie (licei vs. istituti tecnici); e infine anche per il forte divario che l’istruzione comporta sul mercato del lavoro a seconda del titolo di studio: i tassi d’occupazione dei laureati sono più elevati di quasi 30 punti rispetto a quelli con al più la licenza media e di circa 10 punti percentuali rispetto ai diplomati.
Per decidere che fare non bisogna in fin dei conti starci su a pensare troppo.