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In arrivo da tutta Italia per la manifestazione organizzata da Cgil e Uil per rivendicare la difesa e il rilancio della sanità pubblica e universale, in grado di garantire il diritto alla salute, zero morti sul lavoro, una riforma fiscale equa e giusta, salari dignitosi per un lavoro dignitoso. A leggere il Documento di economia e finanza appena varato dal governo Meloni c’è davvero poco da star tranquilli. Una sorta di cornice quasi vuota, che rinvia a dopo le elezioni europee il disvelamento sia delle reali condizioni dell’economia del Paese, sia le scelte che l’esecutivo – per convinzione o per costrizione – si appresta a prendere con la prossima manovra finanziaria. Ma quello che si legge in chiaroscuro aumenta le ragioni della mobilitazione delle due confederazioni. Tagli e tagli al sociale, mancanza di politica industriale e salariale, un’idea di fisco contraria alla Costituzione e negativa per il Paese. Ne parliamo con Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil.
Il fisco è uno dei quattro punti della manifestazione del 20 aprile. Nel Def appena approvato non c’è nemmeno il taglio al cuneo fiscale rivendicato dal sindacato, varato da Draghi e poi rifinanziato da Meloni.
Questa è la prima incognita di un Def che nasconde le reali intenzioni del governo, con l'unico obiettivo di scavallare indenne le elezioni europee. Non sappiamo nulla delle scelte di politica economica che l'esecutivo intende mettere in campo. Consideriamo questo modo di elaborare il Def un vero e proprio vulnus democratico, perché i cittadini dovrebbero essere messi nelle condizioni di votare a ragion veduta e non essere lasciati all’oscuro sulle decisioni che li riguarderanno nell’immediato futuro. Invece la sensazione è che le pessime notizie arriveranno solo a urne chiuse. Senza quadro programmatico, il Def si riduce a una mera fotografia della realtà in essere. E tuttavia non mancano elementi di grande preoccupazione. Il primo: la previsione di Pil per il 2024 è stata ridimensionata dall’1,2% della Nadef all’1%, che però rimane una stima ottimistica rispetto alle analisi dei principali istituti, che fissano la crescita italiana tra lo 0,6 e lo 0,7%. Inoltre, di questo 1%, ben lo 0,9% dovrebbe derivare da un’attuazione tempestiva ed efficace del Pnrr. Due domande sorgono spontanee: dov'è il Pnrr, visto che il ministro Fitto lo ha congelato e “sequestrato” ormai da mesi? Ammesso e non concesso che il 90% della crescita dell'Italia deriverà dal Pnrr, a cosa serve la politica economica e sociale del governo? La verità è che per la prossima manovra di bilancio – tra le misure temporanee che scadono il prossimo 31 dicembre, che richiedono 19 miliardi; la procedura di infrazione per deficit eccessivo che certamente scatterà subito dopo le elezioni europee a carico dell'Italia; il nuovo patto di stabilità che imporrà una stretta alla finanza pubblica – mancano all'appello, a essere ottimisti, almeno 25 miliardi di euro, solo per confermare l’esistente e non cambiare nulla. Ad esempio, che fine faranno i 100 euro netti al mese nella busta paga di 17 milioni di lavoratrici e lavoratori, che derivano dalla decontribuzione e dall'intervento sull'Irpef?
E tutto il resto?
Cosa si intende fare di fronte a una sanità pubblica, già definanziata, che sta implodendo? E per sostenere l’istruzione? E il rinnovo del Ccnl per tre milioni di lavoratrici e lavoratori pubblici, su cui sono state stanziate risorse assolutamente insufficienti nell’ultima legge di bilancio? E sulla previdenza, non si fa nulla per superare la legge Monti-Fornero? Sulle politiche industriali e gli investimenti pubblici extra Pnrr? Continuiamo ad assistere passivamente al processo avanzato di deindustralizzazione che è in corso da tempo? Su tutto questo nel Def non c’è uno straccio di risposta.
Come si lega tutto questo con la riforma fiscale del governo?
Il governo – attraverso la flat tax, il concordato o condono preventivo, non facendo nulla per combattere l'evasione fiscale, anzi premiando settori economici che, a detta dello stesso Mef, hanno una propensione all'evasione del 70% – non fa altro che scaricare interamente sui redditi fissi di lavoratori e pensionati tutte le contraddizioni dell'attuale fase economica. Oltretutto, questo Def fa emergere un ulteriore elemento critico, che riassume tutti gli altri e rappresenta la cifra di fondo dell’azione dell’esecutivo: è scritto nero su bianco che il contributo dei profitti alla crescita inflattiva, che già nel 2022 era del 60%, nel 2023 è ulteriormente aumentato al 70%. Tradotto: il governo sta programmando e assecondando il brutale impoverimento di milioni di lavoratori e pensionati, che ormai sono costretti a utilizzare quote crescenti di risparmio per far fronte alle spese essenziali non comprimibili.
Aumenta l’inflazione a causa dei profitti, ma non si tassano gli extra-profitti…
Non solo non si tassano gli extra-profitti, soprattutto non si interviene nei confronti di un sistema delle imprese che, oltre a scaricare sistematicamente a valle l'aumento dei costi di produzione, oltre a comprimere il costo del lavoro non rinnovando tempestivamente i Ccnl, continua a incrementare i margini, per giunta riducendo pure gli investimenti. Tutto questo, profondamente ingiusto, non fa altro che deprimere ancora di più una domanda interna che, nell'attuale contesto internazionale, rappresenta una leva decisiva per rilanciare la crescita del Paese. La questione che noi poniamo è molto semplice e diretta: di fronte a questa situazione, l'esecutivo intende proseguire con i tagli alla spesa pubblica, in particolare a sanità, scuola, sociale, come ha fatto fin qui e come sembrano confermare le dichiarazioni della presidente Meloni e del ministro Giorgetti? Oppure intende andare a prendere i soldi dove sono, e cioè da extra-profitti, rendite, grandi patrimoni ed evasione, come chiediamo noi? Questo è il nodo politico di fondo.
C’è un’altra questione che il governo sembra non considerare. Se la situazione macroeconomica mondiale è quella descritta dal Def, l'unica possibilità di tenuta del Paese è nel mercato interno. Se i salari continuano a diminuire invece di crescere il mercato interno rimane asfittico.
Affrontare la questione salariale non è soltanto un’esigenza di giustizia sociale, ma un interesse generale del Paese. Aumentare i salari farebbe bene all’intera economia nazionale.
C'è una responsabilità del governo, ma c'è anche una responsabilità delle imprese che rifiutano o ritardano il rinnovo dei contratti.
Con la nostra mobilitazione, infatti, vogliamo contrastare non solo le politiche del governo, ma rivendichiamo anche un cambiamento da parte del sistema delle imprese. Noi diciamo una cosa molto chiara: i contratti vanno rinnovati tempestivamente e adeguatamente. Le imprese non possono pensare di scaricare solo sulla politica e sul fisco la questione salariale, che è innanzitutto e soprattutto una loro responsabilità.
Guardiamo per un momento oltre l'immediato. Un Paese che ha un sistema fiscale, una dinamica salariale come quelli descritti, un’incapacità del sistema delle imprese di pensare a investimenti, un governo incapace di fare politiche industriali, che destino ha?
Ha un destino di declino. Il cuore della strategia del governo è esattamente questo: “Non disturbare chi vuole fare”, come ama ripetere la presidente del Consiglio. Oltretutto, puntando sulla parte più arretrata e meno innovativa del nostro sistema produttivo, come se da lì potesse arrivare la spinta per rilanciare le prospettive dell'Italia. Così il Paese va a sbattere e diventa sempre più marginale anche nella dimensione internazionale, a partire da quella europea. Altro che autonomia differenziata, dovremmo rivendicare politiche industriali ed energetiche comuni a livello di Unione europea, per affrontare le sfide epocali che abbiamo di fronte.
Il 20 aprile in piazza, e poi?
Andiamo in piazza con la Uil su sanità, salute e sicurezza, fisco e salari. Il 25 aprile e il Primo Maggio per difendere e ribadire i valori fondamentali della nostra Costituzione nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro. Il 25 maggio saremo a Napoli con la Via Maestra contro il premierato e l’autonomia differenziata, ma soprattutto per un’idea alternativa di Paese e di società: una Repubblica democratica in cui il lavoro torni a essere strumento di trasformazione, di emancipazione e di progresso; in cui il welfare è pubblico e universale; in cui il fisco è equo e progressivo.
I quattro quesiti referendari e poi la legge di iniziativa popolare stanno dentro questo quadro e in che termini?
Assolutamente sì, stanno dentro questo quadro a partire dalla centralità del lavoro. I quesiti referendari che abbiamo depositato in Cassazione, per i quali cominceremo la raccolta di firme il prossimo 25 aprile, partono da un'idea di fondo: sono una grande battaglia di libertà del lavoro e di contrasto a qualsiasi condizione di ricatto, di subalternità e di sfruttamento. O si mette al centro il lavoro come fondamento ultimo della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, oppure quella prospettiva di declino di cui parlavo non riusciremo a evitarla.