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L’idea di utilizzare i fondi destinati alla coesione per finanziare il piano di riarmo dei singoli Stati europei non è un piano di difesa europeo; infatti quello presentato dalla presidente della Commissione non convince affatto il direttore della Svimez Luca Bianchi. Quelle risorse devono, a suo giudizio, essere utilizzare per ciò che sono state stanziate: ridurre i divari territoriali e quindi le diseguaglianze di cittadinanza. Certo, anche le politiche di coesione necessitano di manutenzione e ci sarebbe bisogno di una vera politica industriale sia europea che nazionale. Ma se davvero si vuole dare futuro all’Europa, a quella del Manifesto di Ventotene, è necessario ripartire e rilanciare il modello sociale su cui si è costruita nel secondo dopoguerra.


La forza dell'Europa è stato il suo modello sociale, non c'è incoerenza con i principi fondativi dell'Europa nel pensare di utilizzare i fondi che dovrebbero servire a rafforzare coesione e inclusione per la “difesa”?
Noi pensiamo proprio di sì. Come Svimez abbiamo fatto un vero e proprio appello per affermare che non si possono utilizzare le risorse della coesione, destinate alla riduzione delle disuguaglianze e dei divari territoriali. Soprattutto non si può farlo in Italia caratterizzata da un divario molto forte Nord-Sud con una differenza non soltanto di sviluppo, ma di cittadinanza, con offerta di infrastrutture sociali molto diverse tra territori. Ribadiamo: certo le politiche di coesione vanno senz'altro riformate per aumentare la loro efficacia, la capacità di spesa, ma altrettanto certamente non possono essere utilizzate per finanziare questo nuovo piano di investimenti, destinati a aumentare gli armamenti italiani ed europei che porterebbe ovviamente un indebolimento della condizione sociale del nostro Paese. Peraltro la gran parte degli investimenti avverrebbe nel Centro-Nord. Crediamo ci sia bisogno di una una posizione chiara di tutti gli stakeholder della coesione contro l’utilizzo di questi fondi per il piano di riarmo.
Lo diceva: la maggioranza di questi fondi verrebbe utilizzata al Nord, eppure i fondi di coesione sono distribuiti su base regionale per rispondere proprio alla volontà, necessità ritenuta prioritaria per e dall'Europa, di ridurre i divari. Che garanzie ci sono che la ripartizione originaria venga rispettata?
Al momento nei documenti e nella bozza di Libro bianco diffuso dalla Commissione non c'è nessun riferimento al mantenimento della localizzazione, della destinazione territoriale nelle regioni in ritardo di sviluppo. Quindi questo apre alla possibilità di finanziare investimenti in tutto il Paese, allora molto probabilmente non solo e non soprattutto al Sud. In ogni caso, anche se ci fosse una adeguata ripartizione territoriale – e non c'è – rimaniamo convinti che i fondi per la coesione debbano servire ad aumentare la competitività e la coesione dei territori più deboli. Quindi non vanno distolti da interventi innanzitutto sulle infrastrutture sociali, che sono quelle sulle quali drammaticamente il divario tra Nord e Sud è maggiore. Poi ci potrebbe essere un interesse anche del Mezzogiorno a definire delle strategie complessive di politica industriale, che possono favorire gli investimenti in stabilimenti produttivi nel Sud. Però questo vorrebbe dire ampliare, cioè utilizzare un meccanismo economico del tipo pensato per ReArm Europe, ma destinato a tutti i settori strategici e non soltanto al settore della difesa, dove notoriamente nel Sud abbiamo una certa debolezza. In sostanza, le risorse destinate alla coesione devono essere utilizzate per ridurre le diseguaglianze. Poi ovviamente si può aprire un tavolo di confronto su quali meccanismi utilizzare per ridisegnare un piano industriale che punti sul Mezzogiorno, a partire dai grandi asset strategici per l’Europa. Il che significa investire sulla transizione ecologica, sui settori della farmaceutica, sull'agroalimentare. Riteniamo sia sbagliato ridurre il discorso sulla la crescita, lo sviluppo e la competitività esclusivamente sul settore della difesa.
Ci sta dicendo che occorre fare una revisione, una manutenzione della gestione dei fondi di coesione e inclusione, a prescindere dal piano della Von Der Leyen?
Assolutamente sì. Non sarebbe la prima volta che si utilizzano fondi di coesione per rispondere a diverse emergenze. È accaduto per il Covid, è accaduto di nuovo per far fronte allo shock energetico causato dall'invasione dell'Ucraina. Il problema è questo: riteniamo che la coesione si difenda tanto più se riusciremo a riformarla. Innanzitutto esiste un problema di rafforzamento degli interessi alla coesione. È necessario rafforzare la percezione dell'utilità delle politiche della coesione così, qualora si provi ad attaccarla destinando ad altro le risorse lì allocate, vi sia una sollevazione dei portatori di interesse. La politica di coesione è sempre stata lasciata troppo sola: dobbiamo costruire intorno ad essa un gruppo di interesse forte. L'interesse è quello dei cittadini e delle cittadine ad avere più servizi di qualità, ad avere condizioni di vita più sicure. Allora è fondamentale rendere più riconoscibile l'utilità di questi fondi. La nostra proposta è destinare i fondi della coesione soprattutto alla realizzazione di infrastrutture sociali, rafforzare l'offerta di servizi per la cittadinanza nel Mezzogiorno: i trasporti, gli asili nido, il tempo pieno nelle scuole, il sistema sanitario, eccetera. Questa è la prima gamba fondamentale che serve a costruire una constituency della coesione, che la difenda nel momento in cui viene attaccata. In secondo luogo occorre migliorare la capacità di spesa rendendo meno complesse le procedure e i processi burocratici. Significa agevolare i rapporti tra i diversi livelli istituzionali puntando, oltre che sulle Regioni, anche sui Comuni così come si è fatto con il Pnrr.
Tenendo ferma la barra su quali debbano essere gli obiettivi delle politiche di di coesione, serve una riforma della politica industriale sia in Europa che in Italia, che abbia proprio al centro la riduzione dei divari?
Assolutamente sì, la politica industriale è un pezzo della politica di riduzione di disuguaglianze. Penso al rapporto Draghi, e soprattutto a quello Letta: occorre l'identificazione di alcuni settori strategici europei e portarli nel Mezzogiorno con i relativi investimenti. Penso, ad esempio, alla transizione energetica localizzando nel Sud non soltanto di impianti di produzione di energia rinnovabile, ma investire sulla filiera. Ugualmente, abbiamo davanti a noi un gigantesco tema, l'accompagnamento del settore automotive verso la transizione. E l'automotive oggi è prevalentemente Sud: nel 2024 il 90% della produzione di automobili in Italia è stato fatto negli stabilimenti del Mezzogiorno. Questo settore sta attraversando una difficilissima transizione: non può essere lasciato solo, servono risorse e serve visione per accompagnare, accelerare i processi di transizione mantenendo il lavoro. Quindi il complesso delle risorse europee, nazionali e anche il supporto del governo, dovrebbero accompagnare questi processi.
Dottor Bianchi, un'ultima domanda. Crisi delle democrazie occidentali, forte ventata populista, disaffezione di cittadini e cittadine europei e italiani dalla partecipazione elettorale: secondo lei questi fenomeni nascono anche dall’esponenziale delle diseguaglianze?
L'Europa deve tornare ai suoi ideali originali. Tra questi, ricordo, la coesione è sempre stata uno dei principi del modello economico e del modello sociale europeo. Nella fase post pandemica Next Generation è stata una risposta coerente con la nostra idea d'Europa, un grande piano che riducesse le disuguaglianze perché l’uguaglianza è l'unica maniera affinché l'Europa cresca di più. Quella visione che c'è stata in quella fase sembra già dimenticata, abbandonata dai nuovi populismi, dai nuovi nazionalismi. Lo stesso piano ReArm Europe è sostanzialmente un piano di riarmo nazionale, non è una vera difesa europea. Io credo, invece, che lavorare sulla riduzione delle disuguaglianze sia uno dei principi fondanti del nostro modello europeo. Quel modello è l’unica via per costruire di nuovo la sensazione dell'essere europei come essere parte di un percorso comune. Se noi abbandoniamo i territori questa percezione di percorso comune si perde. Quindi partire dai territori più deboli deve rimanere uno dei pilastri fondanti di una nuova Europa più forte, più coesa e che può avere un ruolo maggiore nello scenario globale, se partecipa mantenendo la sua specificità che risiede, appunto, nel modello sociale europeo.