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In un’economia di mercato che un’azienda faccia profitti e remuneri il capitale è giusto. Ma in un sistema economico socialmente sostenibile è necessario che una quota di questi profitti serva anche a remunerare adeguatamente il lavoro e ad alimentare la fiscalità generale che finanzia, va sempre ricordato, servizi essenziali come sanità e scuola.
Da tempo però questa proporzione virtuosa nel nostro Paese non esiste più. In Europa l’Italia è l’unico Paese i cui salari si riducono dal 1991 (-3%). Nello stesso periodo in Francia e Germania hanno fatto segnare addirittura un +9.000 e +10.000 euro. Quanto al potere d’acquisto, anche qui i numeri sono impietosi: dal 1990 al 2020 in Italia è sceso del 2,9%, rispetto al +18,4% della media Ocse e al +22,6% della media zona euro.
Salari giù, profitti su
Contemporaneamente i profitti delle aziende e i dividendi per gli azionisti sono cresciuti. È utile allora capire cosa è successo in questi anni. Nicola Cicala, economista della Fondazione Di Vittorio, ha analizzato i dati di Mediobanca su 1.900 aziende di industria e terziario e dell’Osservatorio delle imprese della facoltà di ingegneria civile e industriale della Sapienza di Roma. I risultati sono sconfortanti.
Ebbene, commenta Cicala, “se analizziamo questi dati vediamo che lo scorso anno, rapportati al fatturato, i costi che le aziende hanno sostenuto per acquisti di beni e servizi dopo il covid sono tornati nella media mentre il costo del lavoro è diminuito (con conseguente aumento degli utili netti) e sono cresciuti gli oneri finanziari, cioè in sostanza gli interessi sui prestiti pagati alle banche”.
Ma cosa significa questo? “Significa – risponde Cicala - che il calo del costo del lavoro si è ridotto andando a vantaggio degli azionisti con l’aumento degli utili e dei dividendi, e delle banche che hanno guadagnato sul margine di intermediazione. Insomma, potremmo dire che il capitale ha vinto e il lavoro ha perso”.
Tutto agli azionisti
I dividendi deliberati a favore degli azionisti sono stati tra 2022 e 2023 di ben 52 miliardi. Quindi non solo gli utili in questi anni sono stati molto alti, ma sono stati in gran parte rimasti agli azionisti stessi, cioè, chiosa l'economista, “non sono stati lasciati in azienda per fare investimenti e quindi rendere possibile un aumento di produttività che avrebbe potuto generare aumenti salariali. Alla fine la realtà è che tutto questo ha sottratto risorse al sistema economico".
Il ruolo del fisco
Il sistema fiscale ovviamente non è neutro in questa sottrazione di risorse dal lavoro al capitale. L’Ires, la tassazione sugli utili di impresa, negli anni è progressivamente diminuita: nel 2007 era al 33%, fino al 2016 del 27,5% e infine, dal 2017 a oggi e grazie al governo Renzi, al 24%. Si tratta peraltro di una flat tax, un’imposta piatta che tassa allo stesso modo il colosso industriale e la piccola azienda.
Dunque, commenta Cicala, le aziende “ripagano lo Stato che riduce loro le tasse trattenendo utili e mettendoli nelle tasche degli azionisti. Vorrei poi ricordare che quel 24% è appena un punto superiore al primo scaglione Irpef che paga un normale lavoratore”.
Ma la prova schiacciante di questa sottrazione di risorse al lavoro la si trova nella tabella che pubblichiamo di seguito: tra il 2020 e il 2023 la percentuale del costo del lavoro sul valore aggiunto è diminuita del 12%, mentre quella dell’utile netto è aumentata del 14%: si tratta, insomma, di un travaso totale.
E i grandi gruppi?
Molto interessanti anche alcune analisi condotte sui grandi gruppi, in questo caso comprendendo anche banche e assicurazioni. Solo sommando questi “primi attori” (non tutti dunque quelli operanti nei diversi settori) si arriva a 132,1 miliardi di utili tra 2022 e 2023. “Tra le 20 aziende col fatturato più alto – conclude Cicala – ben 9 sono a controllo pubblico. Sono casi in cui lo Stato, se volesse, potrebbe attuare direttamente politiche redistributive: reinvestendo i profitti e rinnovando i contratti”.
Questo però non succede: è lo Stato stesso a incassare dividendi per tappare buchi qua e là. Senza andare a prendere le risorse dove ci sono: l’evasione fiscale, certamente, ma anche chi fa profitti. Il cerchio si chiude, insomma, e a pagare sono sempre i lavoratori, sulle cui spalle grava gran parte del peso fiscale di questo Paese.
Quei lavoratori che il 29 novembre saranno in piazza per lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil anche per questi motivi.