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Per interpretare correttamente la situazione attuale delle disparità territoriali in Italia occorre partire da tre considerazioni. La prima è che la presenza di disparità regionali è un fenomeno comune in diverse aree del mondo. All’interno dell’Unione europea, dopo un periodo di convergenza, le disparità hanno iniziato a crescere in modo significativo in seguito alla crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008.
La seconda è che oggi, oltre allo storico divario fra Nord e Sud, si registra un fenomeno altrettanto preoccupante: l’apertura di un divario fra l’Italia e l’Europa. Con l’inizio del XXI secolo tutte le regioni italiane (anche quelle economicamente “forti”) hanno perso terreno rispetto alla media europea.
La terza riguarda la compressione, nelle ultime decadi, dell’intervento pubblico e la mancanza di un quadro di riferimento programmatico per le grandi politiche pubbliche.
Quello che registriamo è una forte accentuazione delle disuguaglianze sia economiche che sociali: in primis, crescenti disparità nella distribuzione della ricchezza, con un forte impoverimento di segmenti ampi e crescenti della popolazione.
I cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro contribuiscono a spiegare l’allargarsi dei divari regionali. Come dimostrato da Ciani e Torrini in un loro lavoro del 2019, sono le differenti opportunità lavorative a spiegare la maggior parte della disuguaglianza fra Sud e Nord. La pandemia ha ulteriormente peggiorato gli squilibri del mercato del lavoro e aumentato le diseguaglianze. Aumentano anche le criticità nella qualità del lavoro in Italia.
Alla radice di questi squilibri c’è l’incapacità di governare e indirizzare il cambiamento. Qualcosa diventa inevitabile quando è il risultato di un processo che non hai governato ieri. Se vuoi influenzare il domani, dunque, devi governare l’oggi.
L’intensità e la severità delle disparità regionali, con particolare riferimento al mercato del lavoro, implicano un ritorno all’idea che le disparità regionali sono rilevanti, in primis, per ragioni di equità e coesione economica e sociale. Questo cambio di paradigma dovrebbe essere accompagnato da un riorientamento verso (i) investimenti pubblici, principalmente nella sanità e nell'istruzione, per stimolare l'attività economica nel breve periodo e avere un impatto sul potenziale di crescita economica a lungo termine; (ii) sostegno all'occupazione (anche attraverso nuove assunzioni nel settore pubblico per controbilanciare la forte contrazione del Mezzogiorno); (iii) una nuova governance multilivello in cui si riafferma il ruolo preminente del governo centrale.
Le politiche volte ad aumentare il tasso di occupazione nelle regioni meridionali sono fondamentali per contenere le disparità di reddito in Italia. L'aspirazione a nuovi e migliori posti di lavoro dovrebbe essere al centro di una nuova e inclusiva agenda di sviluppo economico regionale: ciò significa combinare maggiori opportunità di lavoro e migliore qualità in termini di salari, produttività e condizioni lavorative.
Per far questo è fondamentale investire nell'istruzione e nelle competenze orientate ai settori emergenti in linea con le specializzazioni territoriali e le tendenze globali. La recente dinamica del mercato del lavoro ha, infatti, evidenziato la vulnerabilità dei lavoratori che non sono più essenziali per i processi di produzione a causa delle scarse competenze o delle "vecchie competenze". Le regioni in ritardo di sviluppo devono investire in una forza lavoro qualificata e più adattabile ai cambiamenti.
Francesco Prota è docente di Economia politica all'Università di Bari