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Una concezione romanzata della guerra, delle sue origini, di come e perché scoppia e si espande. È quella che siamo abituati ad avere. Abituati a pensare che i fili dei conflitti siano mossi da princìpi che attengono al possesso e al controllo della terra, al sangue, alla razza, alla religione. Un’interpretazione veicolata anche dai media mainstream, con tesi di sicuro appeal, che spacciano un’idea di guerra come agire sacro e nobilitante.
A proporre una voce fuori dal coro è una cordata di economisti che ha scritto e firmato l’appello “Le condizioni economiche per la pace”, pubblicato su Financial Times, Le Monde, il Sole 24 Ore, e adesso diventato un libro per Mimesis di Emiliano Brancaccio. La tesi di partenza è che è l’allargamento dei teatri di guerra nasce dall’eccezionale squilibrio economico in cui si trova il capitalismo americano.
La crisi del capitalismo americano
“Il capitalismo statunitense ha problemi di competitività”, spiega Emiliano Brancaccio, docente di Politica economica all’università del Sannio, saggista e primo firmatario dell’appello: “Dopo la grande recessione mondiale del 2008, si è passati dall’apologia del libero scambio al protezionismo aggressivo, dalla globalizzazione deregolata a barriere commerciali e finanziarie sempre più alte e selettive.
Questo perché gli Stati Uniti, il Regno Unito e altri Paesi occidentali hanno accumulato ingenti debiti verso l’estero, mentre la Cina e altri Stati orientali, e in parte anche la Russia, sono in una posizione di credito verso l’estero. Una situazione che ha portato gli Stati Uniti a cercare di proteggersi contro il rischio di acquisizioni di capitali in mani straniere avverse: Cina in primo luogo, ma anche Russia e altri Paesi cosiddetti nemici, come quelli arabi”.
Il friend shoring, amici e nemici
Questo fenomeno viene chiamato friend shoring, ossia dividere il mondo in due grandi blocchi economici: da un lato gli “amici” occidentali e i loro sodali, con i quali proseguire gli affari, e dall’altro i “nemici” da tenere alla larga. “Se la storia insegna qualcosa – si legge nell’appello – queste forme scoordinate di protezionismo esacerbano le tensioni internazionali e creano condizioni favorevoli a nuovi scontri militari. Il conflitto in Ucraina e le crescenti tensioni in Estremo e Medio Oriente (l’appello è precedente all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e alla risposta militare di Israele in Palestina, ndr) possono essere pienamente compresi solo alla luce di queste gravi contraddizioni economiche”.
Contesa colossale
Una contesa colossale, quindi, di portata storica, che matura in un contesto di prove di forza non più solo economiche ma anche militari. “La feroce competizione economica moderna, per gli enormi squilibri internazionali che genera, può sempre sfociare in scontri militari”, prosegue Brancaccio: “D’altronde non sarebbe la prima volta, è già accaduto in passato. Pensiamo al debito estero dell’impero britannico in declino, alla vigilia della grande guerra. O all’irrisolta questione dei debiti di guerra della Germania tra i due conflitti mondiali”.
Le tregue non bastano
Per interrompere questa grande spirale di guerra, dall’Ucraina al Medio Oriente, per gli economisti non è sufficiente invocare tregue né basta affrontare le questioni puramente territoriali: bisogna avviare una trattativa sulle grandi contraddizioni economiche mondiali.
“Siamo consapevoli – prosegue l’appello – di evocare una soluzione di ‘capitalismo illuminato’ che venne delineata solo dopo i massacri di due guerre mondiali e soltanto sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per una pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno”.
La vera posta in gioco
Gli economisti arrivano quindi a questa conclusione: il sempre invocato “tacciano le armi” non basta. “Ovviamente sarebbe una tregua benvenuta”, conclude Brancaccio: “Un’occasione di respiro per il mondo. Ma sarebbe solo una tregua prima del conflitto successivo. Il punto è che gli interessi coinvolti non riguardano solo i territori contesi, quindi non si possono risolvere decidendo semplicemente sui conflitti. Occorre comprendere che la vera posta in gioco dei prossimi anni è l’ordine economico mondiale”.