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Proviamo a dare una definizione di politica industriale: è l’insieme delle azioni pubbliche che, attraverso strumenti diretti e indiretti, intervengono per accrescere la competitività di un Paese o di un’area, rafforzandone in modo mirato l’apparato produttivo. La politica industriale non si riduce unicamente ai singoli interventi diretti alle imprese, ai settori o all’industria pubblica, ma consiste anche nella capacità che un Paese ha di governare nel merito ciò che fa da contesto ai processi produttivi, coordinando gli attori pubblici e privati, monitorando in dettaglio l’implementazione delle politiche, stabilendo priorità, chiamando ciascuno alle proprie responsabilità. Un’altra puntuale rappresentazione di politica industriale è quella di R. Lombardi: la necessità di cambiare il motore della macchina senza fermarla e, per questa via, creare tanto lavoro quanto se ne perde, magari di buona qualità.
Le osservazioni di cui sopra richiamano le domande fondamentali dell’economia politica: Quanto capitale pubblico deve concorrere alla rigenerazione del capitale privato? Quali sono i settori che lo stato dovrebbe presidiare per affrontare la ricostruzione della nuova catena del valore? Quale è l’equilibrio più avanzato tra stato-finanza-capitale e lavoro? Quale dovrebbe essere il livello di reddito pubblico adeguato a fronteggiare le crisi più o meno inaspettate? Qual è il livello minimo di entrate e spese fiscali per rendere efficace la pubblica amministrazione?
Definita la cornice tecno-operativa della politica economica, occorre delineare l’orizzonte delle politiche economiche. La pandemia ha dischiuso una riflessione inedita circa gli obbiettivi e le strategie della stessa Europa. Il risultato (parziale ma importante) è "Next Generation". Non discutiamo tanto delle risorse finanziarie disponibili che solleverebbe inutili e dannose dispute, piuttosto degli obbiettivi strategici; le condizionalità rispetto a questi obbiettivi è più che legittima. Tutte le risorse, di cui il 93% dovrebbero essere investimenti pubblici, sarebbero impegnate per conseguire questi risultati,: “rafforzare la sua (Europa) autonomia strategica riducendo l'eccessiva dipendenza dalle importazioni per i beni e i servizi più necessari, come i prodotti medici e i prodotti farmaceutici, i materiali critici e le tecnologie abilitanti fondamentali, il cibo, le infrastrutture digitali strategiche, la sicurezza e altre aree strategiche (ad es. spazio e difesa)”.
Nel seguito sono anche indicate le tecniche che meglio di altre sarebbero strategiche: a) Infrastrutture digitali strategiche (5G, sicurezza informatica, infrastruttura di comunicazione quantistica); b) Tecnologie abilitanti fondamentali (robotica, microelettronica, infrastrutture per il calcolo ad alte prestazioni e per il data cloud, blockchain, tecnologie quantistiche, fotonica, biotecnologie industriali, biomedicina, nanotecnologie, prodotti farmaceutici, materiali avanzati); c) Difesa e spazio; d) Materie prime essenziali per la mobilità elettrica, batterie, energie rinnovabili, prodotti farmaceutici, aerospaziale, difesa e applicazioni digitali; e) prodotti medicali e farmaceutici. Più che lo Stato innovatore si osserva la necessità di presidiare i così detti settori essenziali per governare e indirizzare gli assets che più di altri condizioneranno la società nel suo insieme.
La debolezza di struttura del Paese è, innanzitutto, legata alla specializzazione produttiva. Riconosciuta la issue, tutte le azioni pubbliche legate al Recovery Fund dovrebbero intervenire dove è più necessario, rispettando gli obbiettivi strategici europei, nella consapevolezza che non possiamo produrre tutto. Servirebbe progettualità e un governo pubblico della necessaria transizione, il cui esito non sarebbe la somma algebrica della spesa sostenuta.
Combinando i saldi della bilancia commerciale, produzione e intensità tecnologica dei settori (Ateco-Nace) del Paese, emergerebbe una specializzazione da consolidare e/o migliorare e una specializzazione da ricostruire. Consideriamo i saldi commerciali per settore (aggregati): beni capitali, beni di consumo, medicinali confezionati a partire dal 2009, Varie, registrano saldi positivi; beni intermedi, beni di uso finale misto, autovetture, telefoni personali, beni preziosi, registrano saldi negativi.
Alcuni risultati sono noti, si pensi ai beni capitali, beni di consumo e medicinali, altri smentiscono la facile narrativa di troppa pubblicistica: i beni intermedi e l’automotive non sono propriamente assets strategici del Paese. Per strano che possa sembrare, la debolezza nei beni intermedi è più preoccupante della debolezza nell’automotive che ormai è concentrata i pochi player. Sebbene la bilancia commerciale sia un indicatore importante circa il posizionamento internazionale del Paese, questa non è esaustiva del potenziale di crescita. Guardando alla produzione aggregata si osserva come e quanto l’intensità tecnologica italiana sia più contenuta di quella francese e tedesca. L’effetto è quello di una minore crescita della produzione che dovrebbe, teoricamente, soddisfare una domanda sempre più high-tech oriented.
Sarebbe sia possibile indagare puntualmente ogni settore del tessuto economico nazionale e “intercettare” i punti forza e debolezza, quello che suggerisco è un metodo e una griglia interpretativa. Tanto più la ricerca economica riuscirà a indagare i punti di forza e debolezza dei settori, tanto più il governo potrebbe costruire le misure coerenti per agganciare i vincoli reclamati dall’Unione europea.
Roberto Romano è un economista