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Se lavori a Milano, Bolzano, Parma, Bologna e Modena arrivi a guadagnare molto di più di quanto prenderesti se vivessi a Trapani, Cosenza, Nuoro e Vibo Valentia. In media, al Nord il 35 per cento in più rispetto al Sud. Un divario incredibile: gli occupati nelle regioni settentrionali percepiscono una retribuzione media giornaliera lorda di 101 euro, a fronte dei 75 guadagnati dai colleghi meridionali.
Squilibri salariali
A rivelare queste differenze macroscopiche è l’ufficio studi della Cgia di Mestre, che ha elaborato i dati Inps e Istat riproponendo la vecchia questione degli squilibri retributivi tra le diverse aree del nostro Paese, tra Nord e Sud appunto, ma anche tra le zone urbane e rurali.
Basta guardare le cifre. Un lavoratore dipendente in Lombardia ha un salario medio di 28.354 euro, mentre in Calabria 14.960 euro, poco più della metà. Nelle province top, a Milano gli imprenditori pagano gli stipendi più elevati, 32.472 euro, a Parma 26.861 euro, a Modena 26.764 euro, a Bologna 26.610 euro, a Reggio Emilia 26.100 euro.
Tutt’altri numeri nelle province con le retribuzioni più basse: a Trapani i lavoratori percepiscono 14.365 euro in media all’anno, a Cosenza 14.313 euro, a Nuoro 14.206 euro. Vibo Valentia è quella messa peggio: qui portano a casa solo 12.923 euro. La media italiana? Ammonta a 22.839 euro.
Italia a due velocità
“Lo studio conferma quanto continuiamo a sostenere da tempo – commenta Nicola Marongiu, responsabile area contrattazione, politiche industriali e del lavoro della Cgil -: e cioè che sussiste un differenziale retributivo tra Nord e Sud, e anche, aggiungo, un divario di genere. Questa è l’Italia a due velocità. Naturalmente stipendi, ferie, permessi sono omogenei su tutto il territorio, perché garantiti dai contratti collettivi nazionali, per cui in un’azienda del Sud specializzata in microelettronica ci sono i trattamenti retributivi paragonabili a quelli delle imprese collocate in altre aree del Paese. Il punto è capire perché si generano queste differenze, che derivano probabilmente dal diverso livello di specializzazione delle aziende e quindi anche dal differente contenuto professionale delle attività e da dove sono collocati gli occupati”.
Settori ad alto valore aggiunto
Per l’associazione artigiani, dopo l’abolizione delle cosiddette gabbie salariali avvenuta nei primi anni ’70 e l’impiego del contratto collettivo, gli squilibri sono rimasti e in molti casi sono addirittura aumentati: “Nel settore privato – si legge nel report - le multinazionali, le utilities, le imprese medio-grandi, le società che tendenzialmente riconoscono ai propri dipendenti stipendi molto più elevati della media, sono ubicate prevalentemente nelle aree metropolitane del Nord”.
C’è poi da considerare che il lavoro irregolare, molto diffuso soprattutto nel Mezzogiorno, da sempre provoca un abbassamento dei salari contrattualizzati dei settori che tradizionalmente sono investiti da questa piaga sociale: dall’agricoltura ai servizi alla persona al commercio.
Non solo. “È chiaro che se al Sud hai più addetti nei settori dell’agricoltura e del turismo, dove le retribuzioni sono inferiori, anche in ragione del numero delle ore lavorate – prosegue Marongiu -, la media generale sarà inferiore se paragonata alle realtà del Nord, dove è più concentrata l’industria, la manifattura, i servizi ad alto valore aggiunto”.
Parità retributiva
La dimostrazione arriva dal fatto che a parità di settore, le differenze territoriali si riducono e mediamente sono addirittura infriori di quelle presenti in altri Paesi europei. “Possiamo dire che in Italia le disuguaglianze salariali a livello geografico sono importanti – spiega lo studio -, ma grazie a un preponderante ricorso alla contrattazione centralizzata abbiamo differenziali intra-settoriali più contenuti rispetto agli altri Paesi”.
Ma quali gabbie?
Peccato che il governo abbia dato il via a un disegno di legge per differenziare le retribuzioni dei dipendenti pubblici e privati in base al costo della vita, con una sorta di modularità che si potrebbe tradurre in “gabbie salariali”.
“Noi rispetto alla diversificazione su base regionale dei trattamenti retributivi non abbiamo cambiato idea – conclude Marongiu -. Nella legge delega che il governo vuole portare avanti in sostituzione del salario minimo, si fa rifermento di nuovo alla contrattazione adattativa, rispetto agli squilibri di carattere regionale. Ma il contratto collettivo nazionale è e resta l’unico strumento di coesione utile a garantire omogeneità. Poi bisogna capire perché la contrattazione di secondo livello nel Sud Italia non si fa o si fa pochissimo. Ma questo cercheremo di capirlo il prossimo 17 settembre, in occasione della presentazione del quarto rapporto sul tema”.