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La crisi del coronavirus e gli interventi dei governi per affrontare l’emergenza hanno aperto un nuovo, importante spazio per la politica. Sul fronte europeo, la sospensione del Patto di stabilità e crescita, la possibilità di fornire aiuti di stato alle imprese e i 170 miliardi di euro che l’Italia potrebbe ricevere dal Fondo per la ripresa dell’Ue hanno (temporaneamente) eliminato i vincoli alla spesa pubblica, che hanno soffocato la crescita del Paese in un decennio di austerità. Gli interventi di emergenza del governo di Giuseppe Conte hanno fornito sussidi alle imprese e una parziale e disuguale tutela del reddito dei cittadini. Si tratta di interventi necessari nell’immediato, ma che ora vanno ripensati sulla base di un progetto per ricostruire l’economia del paese.
Dopo un decennio di crescita zero, di fronte a una crisi che potrebbe far cadere il Pil tra l’8 e il 13% nel 2020, non si può più pensare che il mercato possa far ripartire da solo l’economia. Le decisioni di fondo sulle traiettorie di sviluppo del paese vanno riportate nella sfera pubblica, l’unica in grado di mobilitare risorse adeguate per uscire dalla crisi. È per questo che dovrebbe tornare al centro la politica, il dibattito tra forze politiche e sociali sugli obiettivi che il paese vuole darsi, sugli strumenti per raggiungerli e su come si possono rivitalizzare i processi democratici per prendere decisioni condivise.
Da questo punto di vista è importante la discussione su Collettiva che ha visto gli interessanti interventi di Archibugi, Pennacchi e Reviglio, di Pierluigi Ciocca e Andrea Roventini confrontarsi sui diversi aspetti di questa sfida. Se il governo si è concentrato sulle misure di emergenza, le forze politiche sono andate raramente oltre una polemica di corto respiro, mentre è stata la Confindustria del nuovo presidente Carlo Bonomi, già al vertice di Assolombarda, a portare la discussione sui rapporti tra Stato e imprese, ribadendo una posizione ideologica duramente contraria a ogni intervento della politica nell’economia, proprio mentre le misure del governo consentivano la sopravvivenza delle imprese.
Da parte sindacale occorre una risposta politica su questo terreno. È qui che si decide la capacità di ripresa dell’economia italiana, è qui che si ridefiniscono i rapporti di forza tra capitale e lavoro per il prossimo decennio, è qui - ed ora - che si possono costruire alleanze possibili con i soggetti sociali, alcune imprese, le organizzazioni della società civile e i movimenti impegnati da anni per un altro modello di sviluppo, meno distruttivo sul piano ambientale, meno disuguale sul piano economico, meno ingiusto sul piano sociale.
Un contributo di rilievo in questa direzione è venuto dalla Campagna Sbilanciamoci! che ha lanciato il documento "In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo" insieme a 42 studiosi e protagonisti della società civile – tra cui Francesca Re David, segretaria generale della Fiom - e sottoscritto poi da 2500 persone. Nel documento sono proposti dieci punti da cui ripartire per affrontare l’emergenza immediata e ricostruire l’economia e la società italiana dopo l’epidemia, il primo dei quali riguarda proprio il nuovo intervento dello stato. Nel dibattito, è intervenuta anche Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil.
Per uscire dalla crisi sono due gli ambiti in cui l’azione della politica e l’intervento pubblico dovrebbero essere sviluppati in modo particolare: il welfare e le politiche industriali. Il welfare state è una componente essenziale del “modello sociale” europeo: sanità, scuola, università, previdenza, assistenza sono attività fornite in misura prevalente dall’intervento pubblico, nella forma di servizi pubblici universali, per soddisfare i bisogni e garantire i diritti dei cittadini. Questo modello di welfare è stato seriamente messo in discussione da decenni di politiche neoliberiste. Le privatizzazioni e i tagli hanno costretto i servizi pubblici a ridimensionare le proprie attività, perdendo universalità, efficacia e qualità. Nella sanità, in particolare, il perimetro dell’azione pubblica si è ridotto a vantaggio delle attività private. Come osserva il documento ‘In salute, giusta, sostenibile’, “le lezioni della pandemia sono che il sistema di welfare pubblico universale – per quanto indebolito negli anni – ha saputo svolgere un ruolo essenziale nella tenuta del paese. Occorre ora riconoscerne il ruolo e rifinanziare in modo adeguato tutta l’azione pubblica”, riducendo al tempo stesso in questi campi gli spazi per i privati e il mercato".
Sul terreno delle politiche industriali – citando ancora il documento ‘In salute, giusta, sostenibile’ - “dalla politica di questi anni fondata sul sostegno indiscriminato alle imprese, attraverso facilitazioni e incentivi fiscali, bisogna passare al sostegno selettivo e mirato di produzioni e attività economiche strategiche e utili al Paese: infrastrutture materiali e sociali, attività ad alta intensità di conoscenza, innovazione e lavoro qualificato. Al posto delle politiche “orizzontali” che lasciavano fare al mercato, l’impegno pubblico per la ricostruzione dell’economia potrebbe concentrarsi in tre aree: la sostenibilità ambientale, le attività per la salute e il welfare, le tecnologie digitali”. Accanto a queste tre aree prioritarie di intervento – proposte in numerosi contributi recenti, la nuova politica industriale dovrebbe porre un’attenzione particolare alla quantità e alla qualità dell’occupazione creata e mantenuta e alla riduzione delle disparità territoriali e di reddito che si sono aggravate nel Paese. Occorre una visione d’insieme - integrata con le politiche del lavoro, ambientali, di formazione, ecc. - e la combinazione di strumenti già esistenti con nuovi interventi, capaci di guardare ben oltre l’emergenza.
Tra i primi ci sono varie misure a sostegno degli investimenti e per rafforzare il sistema ricerca-innovazione del paese, da affiancare a una politica della domanda pubblica che estenda i mercati per produzioni nazionali. Di fronte alle decine di miliardi concessi alle imprese come crediti garantiti dallo stato, il sindacato dovrebbe aprire un confronto per un sostegno contrattato agli investimenti delle imprese private. Finora si è parlato pochissimo delle condizioni a cui fornire tali aiuti: esse possono prevedere piani precisi per investimenti, ricerca e occupazione in Italia, coerenti con gli obiettivi di sostenibilità, rafforzamento tecnologico e riduzione dei divari territoriali. Soltanto il caso della Fca, ora con sede all’estero e in procinto di essere acquisita da Peugeot, ha ricevuto la giusta attenzione: una proposta per richiedere investimenti nella mobilità elettrica è venuta dalle principali organizzazioni ambientaliste e da Sbilanciamoci!.
Tra gli interventi di tipo nuovo, è necessario pensare a nuovi soggetti per gli investimenti pubblici e le partecipazioni nelle imprese. La politica industriale è oggi sprovvista di istituzioni adeguate alla complessità e varietà degli interventi necessari. La Cassa depositi e prestiti unisce il ruolo di finanziatore degli investimenti pubblici, specie degli enti locali, quello di "holding" delle principali partecipazioni dello stato nelle grandi imprese, e quello di investitore "paziente" in imprese private considerate di rilievo per il paese. Tali funzioni andrebbero distinte, con un’Agenzia per gli investimenti pubblici, una vera holding delle imprese a controllo pubblico e una banca pubblica d’investimento che finanzi, anche con capitale di rischio, lo sviluppo di nuove attività e possa esercitare il "golden power" previsto dal governo per evitare l’acquisizione di imprese in difficoltà temporanea da parte di gruppi stranieri.
Il sindacato, e la Cgil in particolare, ha un ruolo essenziale da svolgere per progettare il nuovo sviluppo del Paese. Si tratta di una strada impegnativa. Come ricorda il documento ‘In salute, giusta, sostenibile’, “serve una nuova generazione di politiche che evitino di cadere negli errori del passato: la collusione tra potere economico e politico, la corruzione e il clientelismo, la mancanza di trasparenza e di controllo democratico. Servono una politica e una pubblica amministrazione con alte competenze, capacità di organizzare le risorse del paese e dare risposte ai bisogni”. Ma prendere questa strada vuol dire anche avviare un rinnovamento importante della politica e della democrazia italiana, all’insegna dei valori della Costituzione, della tutela del lavoro, della riduzione delle disuguaglianze, della sostenibilità ambientale.
Mario Pianta è professore di Economia politica all'università di Urbino. Matteo Lucchese è docente di Economia e politica dell'innovazione all'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano.