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Il titolo è una voluta provocazione, tanto più nella stagione che immagina la digitalizzazione come salvifica, capace di per sé di cambiare il mondo; dominata dalla retorica della tecnologia come libertà ed eguaglianza. Ricorda molto la retorica del “virus democratico”.
È sempre necessario premettere ai ragionamenti su questi temi, soprattutto se fuori dal coro, che la tecnologia non è neutra ma, come vedremo, è “educata” e governata dagli umani. Valutare e criticare l’approccio al processo digitale è necessario proprio per chi, come noi, crede che la tecnologia sia una straordinaria opportunità per ridurre diseguaglianze e asimmetrie, e per questo vuole essere soggetto, anche contrattuale, di questa transizione.
Il buongiorno tecnologico non può essere quello somministratoci da Google con il licenziamento di due lavoratrici che avevano messo in evidenza i bias presenti in programmi proposti dalla stessa Google.
La digitalizzazione già investe, e lo farà in maniera sempre crescente, i modelli di lavoro, la vita quotidiana di ognuna e ognuno, i modelli sociali. Può farlo favorendo uguaglianza, trasparenza, libertà o alimentando le diseguaglianze esistenti, approfondendole e creandone di nuove. Il governo di questo processo non può dunque essere tema specialistico all’attenzione di pochi, né un sistema escludente, segregato.
Verrebbe da dire che bisogna avere cura della digitalizzazione. La cura è una pratica, anzi un paradigma che può cambiare in meglio il mondo e tessere relazioni. La cura va posta in primo luogo nel processo di ricerca e nella sperimentazione della tecnologia, che, ribadiamo, non è neutra. La tecnologia è un agevolatore e in qualche caso un acceleratore di decisioni umane.
Le tecnologie operano in base a ciò che conoscono, che hanno imparato, ricevono “un’educazione”. Se i contenuti da apprendere sono scelti solo da uomini bianchi di mezz’età, il risultato non sarà mai rappresentativo della complessità del mondo e delle sue diversità, ma riprodurrà diseguaglianze e stereotipi. Non sono paure avveniristiche, è una realtà già sperimentata, ad esempio nei programmi di riconoscimento di immagini. Proprio queste denunce sono all’origine dei licenziamenti Google, a partire da cui si sperimentano nuove modalità di organizzazione sindacale nelle big tech.
Che fare, dunque, perché il processo di digitalizzazione non sia “de genere”?
Un processo che informerà modelli di lavoro, di vita e sociali richiede governo, non può dipendere solo da scelte private, ha bisogno di trasparenza delle informazioni immesse e degli obiettivi che si danno agli algoritmi. Bisogna poter accedere alle sorgenti.
Già i nuovi regolamenti europei, attualmente in discussione, si stanno cimentando con questo tema, e con quello strettamente collegato dei dati e della proprietà degli stessi. Molto si discute del bisogno che le donne entrino nei luoghi di ricerca e progettazione, acquisiscano padronanza e autorevolezza nelle cosiddette “materie stem”, e non c’è dubbio che è una strada da percorrere. Occorre, però, rimuovere condizionamenti e stereotipi radicati fin dall’infanzia, ragione per la quale non è sufficiente incentivare scelte universitarie se non si qualificano nell’insieme i percorsi educativi e scolastici sul valore e il rispetto delle diversità.
Le affermazioni ripetute: “sono meglio le professioni degli uomini, sono le più retribuite, sono il futuro”, propongono l’omologazione, sono non solo un messaggio colpevolizzante e di disvalore delle diversità, ma anche un’idea monca della società, del come si progetta e del come si governa.
Progettare una città, definire un percorso di mobilità, qualificare e integrare i servizi, per fare qualche esempio, permette di tradurre un’idea astratta di digitalizzazione in scelte e tecnologie che definiscono progetti, che li rendono più efficaci e flessibili. Ma saranno nuove gabbie, se ci si immagina di farlo senza considerare le diverse esigenze di mobilità e i diversi bisogni delle persone.
Vi è un’urgenza di recuperare nel dibattito pubblico e nella pratica delle scelte un’interdisciplinarietà che non deleghi alla tecnica, che non immagini che sono gli umani che devono adeguarsi a essa, ma usi la tecnologia per agevolare decisioni, scelte, necessità umane.
Oggi possiamo dire che il mondo tecnologico è per soli uomini, fatto praticamente da soli uomini, che raramente si ricordano di essere una parte del mondo e non il tutto. Se provassimo, quindi, ad affrontare la transizione digitale non nel segno del primato della tecnica, ma in nome della necessità di ridurre le asimmetrie e di non crearne di nuove, scopriremmo il pensiero femminile che già tanto esprime e progetta un mondo diverso e più libero, che riesce a pensare a sé e al mondo come a un collettivo.
Infine, un mondo migliore deve fare i conti con la sicurezza; la violenza maschile contro le donne, i crimini di odio hanno un effetto sistemico di insicurezza, ampliano i divari e moltiplicano le esclusioni. Possiamo dire che il fascino della rete come spazio libero e democratico, la crescente possibilità di accesso non viene meno, ma questo ideale è tristemente contraddetto da ciò che nella rete si incontra. Registriamo sempre di più il moltiplicarsi di minacce, molestie, offese e discriminazioni. Come per tutta la digitalizzazione, emergono necessità di “educazione”.
Anche la cyber sicurezza non può essere sottotraccia e non può essere destinata all’esclusivo fine della protezione del profitto, come il dibattito pubblico e le norme sulla privacy già dimostrano.
A conferma che uno sguardo solo, una parzialità, non disegna un mondo per tutte e tutti ma per pochi, e solo uomini.
Susanna Camusso, responsabile delle Politiche di genere della Cgil