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Il 18 giugno del 1873 la femminista statunitense Susan Anthony viene condannata al pagamento di una multa di 100 dollari per aver tentato di votare, benché donna, alle elezioni presidenziali statunitensi del 15 novembre precedente. Al giudice che la accusava di aver violato la legge rispondeva: “Sì, vostro onore, ma sono leggi fatte dagli uomini, interpretate da uomini e amministrate da uomini in favore degli uomini e contro le donne”.
“Io non pagherò nemmeno un dollaro per la vostra ingiusta condanna”, dirà di fronte alla condanna alla multa e al risarcimento delle spese processuali, mantenendo la sua promessa. Solo nel 1920, quando lei era già morta, un emendamento alla Costituzione statunitense - l’emendamento “Anthony” - concederà il voto alle donne.
Solo nel 1920, ma prima decisamente prima che in Italia dove le donne otterranno il diritto di voto attivo e passivo solo nel 1945-46.
Punto di arrivo di un percorso lungo e tortuoso, il riconoscimento del diritto di voto alle donne in Italia prende le mosse dallo Statuto Albertino (Costituzione adottata dal Regno di Sardegna il 4 marzo 1848 a Torino), che all’articolo 24 recitava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”.
Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito.
Nel 1877, Anna Maria Mozzoni presenta al governo la prima di una lunga serie di petizioni per il voto politico alle donne che sarà bocciata, nello stesso momento le donne che ne hanno i requisiti prescritti dalla legge cominciano ad essere iscritte nelle liste elettorali (nel 1867 il deputato Salvatore Morelli presentava un primo disegno di legge per consentire il voto alle donne dal titolo ‘Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alla donna i diritti civili e politici’. La proposta, respinta con voto della Camera dei deputati, sarà ripresentata nel 1875).
Intanto le Corti di appello cominciano a trovarsi nella condizione di dover bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali accolgono (la Corte di appello di Ancona presieduta da Lodovico Mortara sarà l’unica ad accogliere nel 1906 la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza sarà comunque rovesciata).
Così la Corte di appello di Firenze giustificava il respingimento della richiesta:
“Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”.
Nel maggio del 1912 durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale, che avrebbe esteso il voto anche agli analfabeti maschi, i deputati Giuseppe Mirabelli, Claudio Treves, Filippo Turati e Sidney Sonnino proporranno un emendamento per concedere il voto anche alle donne. Giolitti vi si opporrà strenuamente, definendolo un salto nel buio. La questione, rimandata all’esame di una apposita commissione, sarà accantonata.
Il 9 maggio 1923 anche Mussolini, al governo da un anno, parlerà al nono Congresso dell’Alleanza femminile internazionale (Roma, 14-19 maggio 1923) del suffragio femminile, promettendo alle donne il voto amministrativo, ma due anni più tardi una riforma rimpiazzerà i sindaci con i podestà, cancellando il voto amministrativo in generale.
L’8 settembre comincia la Resistenza al nazifascismo, una resistenza fatta dagli uomini e dalle donne.
“È nella Resistenza - diceva Marisa Rodano alla Camera dei deputati in occasione del 70° anniversario della Liberazione - che le donne italiane, quelle di cui Mussolini aveva detto 'nello stato fascista la donna non deve contare'; alle quali tutti i governi avevano rifiutato il diritto di votare, la possibilità di partecipare alle decisioni da cui dipendeva il loro destino e quello dei loro cari, entrano impetuosamente nella storia e la prendono nelle loro mani. Nel momento in cui tutto è perduto e distrutto - indipendenza, libertà, pace - e la vita, la stessa sussistenza fisica sono in pericolo, ecco le donne uscire dalle loro case, spezzare vincoli secolari, e prendere il loro posto nella battaglia, perché combattere era necessario, era l’unica cosa giusta che si poteva fare”.
La prima opportunità di accesso alle donne alla partecipazione politica sono le elezioni amministrative del 10 marzo 1946 che vedono una partecipazione di massa delle donne con una affluenza superiore all’89%. In quella occasione vengono elette circa 2000 candidate nei consigli comunali, di cui la maggior parte in liste di sinistra.
Il 2 giugno 1946 in Italia si vota per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente.
Le elette donne sono 21 su un totale di 556 deputati: nove del Partito comunista, nove della Democrazia cristiana, due del Partito socialista, una dell’Uomo qualunque (il 9,3% sul totale delle candidate, il 3,8% sul totale dei deputati eletti. Due anni dopo, alle elezioni del primo Parlamento, il numero di donne elette salirà a 49 pari al 5%).
Se si analizza l’andamento della presenza femminile in Parlamento si può notare come siano stati necessari 30 anni per eleggere più di 50 donne (quota 100 è stata superata solo nel 1987, quota 150 nel 2006).
Dal 2006 la crescita della componente femminile risulta più rapida, tanto è vero che nel 2013 il numero delle donne risulterà raddoppiato (299, pari al 30,7%).
Nei primi trent’anni di vita della Repubblica italiana i Consigli dei ministri sono composti esclusivamente da uomini: bisogna attendere il 1976 perché una donna, Tina Anselmi, sia nominata ministra del Lavoro e della Previdenza sociale dall’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Soltanto in cinque casi la Presidenza della Camera è stata affidata a una donna (Nilde Iotti per tre legislature, Irene Pivetti e Laura Boldrini), in un solo caso la Presidenza del Senato (Maria Elisabetta Alberti Casellati).
Su oltre 1500 incarichi di ministro assegnati in 70 anni di storia repubblicana le donne ne hanno ottenuti più o meno 80 (di cui la metà ca. senza portafoglio). Nessuna donna ha mai rivestito l’incarico di ministra dell’Economia e delle finanze. Nessuna donna è mai stata nominata presidente del Consiglio né eletta alla Presidenza della Repubblica.
E le asimmetrie di genere non riguardano solo la politica nazionale.
Circa la metà delle regioni italiane non ha mai avuto alla guida una donna.
Che altro dire se non SE NON ORA, QUANDO?