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Il mese di giugno 2022 è stato caratterizzato da due notizie pressoché concomitanti che hanno sollecitato riflessioni e i più disparati interventi sul tema dei diritti umani, sociali, civili in riferimento alla comunità Lgbt+, in particolare alle persone transgender.
La prima riguarda l’uscita nelle sale del film documentario Nel mio nome di Nicolò Bassetti, che racconta la difficoltà del cammino di transizione di genere di quattro giovani ragazzi, la seconda la tragica, crudele vicenda di Cloe Bianco, ex insegnante, il cui corpo carbonizzato è stato trovato in un furgone bruciato dalle fiamme, suicida dopo un passato di discriminazioni legate al suo essere donna trans. Entrambi gli eventi ci dicono di una società incapace di essere accogliente ed empatica nei confronti delle differenze relative alle identità sessuali e di genere, come di tutte le diversità, impedendo di fatto il riconoscimento pieno dell’appartenenza alla comunità civile delle persone sulla base di un principio di equità, pari opportunità e diritti.
I protagonisti di Nel mio nome, già presentato nella sezione Panorama della 72° edizione del Festival di Berlino 2022 e reso disponibile nelle sale dal 13 al 15 giugno, sono quattri giovani ragazzi, Nico, Leo, Andrea e Raff, che iniziano la loro transizione, dal genere femminile a quello maschile, in momenti diversi delle loro vite e affrontano con grande coraggio gli ostacoli di un mondo binario. La loro è una lotta quotidiana per una vita vera e dignitosa in una società impreparata a fronteggiare pregiudizi e stereotipi, nella consapevolezza che la serenità raggiunta rischia di essere incrinata da sempre nuovi ostacoli.
“Una meditazione sull'umanità trans che presenta ingegnosamente e intenzionalmente tutti i diversi pezzi che costituiscono l’identità di una persona”. Così ha definito l’opera il produttore esecutivo Elliot Page, già Ellen Page, tra le personalità più note ad aver compiuto la transizione, che ha da qualche anno fatto “coming out” e parlando della liberazione dal disagio di trovarsi in un corpo che non sentiva suo, ha affermato: “La differenza più significativa fra la mia vita di allora e quella di oggi è che adesso sono davvero in grado di esistere” Un cammino di liberazione ben diverso rispetto a quello toccato a Cloe Bianco, transessuale, insegnante, autrice del libro “PERsone TRANSgenere. Manifesto e Progetto della dignità e dei diritti delle persone transgenere in Italia” e curatrice di un blog.
Nel 2015 la prof. Bianco entra in ruolo. Credendo che questo l'avrebbe tutelata, decide di cominciare a esprimere liberamente il proprio genere anche nel luogo di lavoro. Da quel momento la sua vita è diventata un inferno. Presentatasi al lavoro vestita con abiti femminili, suscitando le reazioni indignate di alcuni genitori e l’intervento di Elena Donazzan, assessora regionale all’istruzione di Fratelli d’Italia che parlò addirittura di “carnevalata”, è stata dapprima demansionata e poi gradualmente allontanata dal suo lavoro, complice la sconfitta nell’aula di tribunale, perché non fosse cattivo esempio per gli studenti; alla fine di una lunga spirale di discriminazione, si è tolta la vita.
La sua morte non ha messo fine agli insulti, perché riportare la storia di Cloe appellandola al maschile – come hanno fatto certi giornali generalisti, non rispettando la sua identità di genere – è un ulteriore insulto. Le persone transessuali rappresentano l’1% della popolazione mondiale, circa 80 milioni di individui, e, se i diritti umani delle persone vengono costantemente violati sulla base dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, la questione impatta sul benessere non solo delle persone transgender, ma del corpo sociale tutto.
È assolutamente necessario che il ministero dell’Istruzione, dunque, vada fino in fondo nell’accertamento delle responsabilità rispetto alla vicenda di Cloe Bianco per quanto concerne le ingiustizie subite in ambiente scolastico. Necessario, ma non sufficiente. Una lavoratrice o un lavoratore che subisce vessazioni sul luogo di lavoro per la propria identità di genere, una cittadina o un cittadino indotta a uccidersi perché, a causa di ciò, è stata ghettizzata, annientata dall’ipocrisia della cultura benpensante prima ancora che dal fuoco, chiedono risposte e cambiamenti urgenti da parte di una società che, intenzionalmente o per indifferenza, tollera l’odio e il disprezzo verso un’intera comunità.
Ma la morte di Cloe Bianco, come le tante altre esperienze di persone trans raccontate nel suo blog, chiamano in causa anche, e principalmente, le responsabilità di una certa classe politica che ha scelto apertamente la strada dell’omotransfobia, a partire dai promotori della campagna di opposizione al Ddl Zan contro i crimini d’odio e le discriminazioni e dagli artefici del vergognoso applauso che lo scorso 27 ottobre è scoppiato nel momento in cui il Senato affossava definitivamente il provvedimento.
In un paese che vuole essere ancora democratico e civile le discriminazioni e le violenze che hanno indotto Cloe Bianco a scegliere una “libera morte” pur di non continuare a vivere ai margini, non possono più essere sottaciute e tollerate, tantomeno legittimate nel dibattito politico. È ora di dire basta a questa violenza. Lo dobbiamo al futuro di questo paese.
Manuela Calza, segretaria nazionale Flc Cgil