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“Il protagonista, suo malgrado, di questa vicenda è un operaio di un’azienda di Piove di Sacco. Diciamo che è poco più che quarantenne e che chiameremo, per preservarne la privacy, con il nome di fantasia di Mario”. È così che Antonella Franceschin, direttrice dell’Inca Cgil Padova, inizia a raccontare questa storia che si è risolta con una sentenza del Tribunale di Padova dello scorso 30 giugno. Una sentenza destinata a fare molto rumore perché riguarda una tematica assai ricorrente e rilevante, quella dei licenziamenti per inidoneità al lavoro a fronte di malattie professionali o infortuni nei quali è ravvisabile una responsabilità del datore di lavoro. Ma stavolta l’esito processuale, vista la giurisprudenza in materia, è stato perlomeno inconsueto, se non addirittura sorprendente.
La vicenda
“Tutto ha inizio il 10 maggio del 2013, un giorno come tanti – racconta Antonella Franceschin – e Mario, al tempo 36enne stava lavorando ad una macchina piegatubi: ad un tratto, mentre impugnava un tubo, reso scivoloso da un lubrificante, questo si muoveva dalla morsa dove era collocato provocandogli un trauma distorsivo al polso destro. È l’inizio del calvario. Una via crucis medico-sanitaria, lavorativa e infine processuale. Medico-sanitaria perché il danno è ingente, con continue ricadute e il ricorso a ricoveri e interventi chirurgici che purtroppo, neanche a distanza di tempo, sono stati in grado di permettere il completo recupero dell’arto. È quel che sancisce, nero su bianco, la perizia del ctu (Consulente Tecnico d’Ufficio) che ha valutato una lesione permanente all’integrità psicofisica dell’uomo del 24% nonché una lesione della sua specifica capacità di lavoro del 40%. In pratica, per tre anni Mario non fa che entrare e uscire dagli ospedali, sottoporsi alle visite dell’Inail, rientrare al lavoro per poi, in seguito al riacutizzarsi del trauma e alla conseguente ricaduta, ricorrere nuovamente a cure ospedaliere urgenti e ricominciare il giro. Così fino al 29 giugno 2016, quando per inidoneità al lavoro, l’azienda licenza Mario. Inutile aggiungere che da quella data non ha più trovato lavoro in modo stabile e a oggi la sua condizione di disoccupazione permane, nonostante l’iscrizione nell’elenco dei lavoratori disabili, al fine del collocamento mirato. In pratica, l’infortunio subito, non solo ha avuto come conseguenza il suo licenziamento ma ha anche limitato fortemente le possibilità di trovare un’altra occupazione. Si tratta di una beffa crudele oltre che di un’ingiustizia perché, e qui si intreccia la vicenda processuale, sull’infortunio subito vi è una grossa responsabilità dell’azienda, motivo per cui Mario prima era venuto qui da noi all’Inca Cgil a raccontarci la sua triste storia e poi, rappresentato dall’avvocata Camilla Cenci dello Studio Giancarlo Moro, era ricorso al Giudice del Lavoro del Tribunale di Padova chiedendo il risarcimento del danno. E arriviamo a circa tre settimane fa”.
Il processo
“Naturalmente – prosegue Antonella Franceschin – l’azienda aveva rigettato il ricorso scaricando sostanzialmente sull’operaio la responsabilità di quanto accaduto per non aver serrato correttamente la morsa intorno al tubo consentendogli così di uscire dalla sua sede. Ma nel corso del processo è emerso come la scivolosità del tubo, causata dal lubrificante con cui veniva rivestito per poter essere lavorato, avesse avuto un ruolo decisivo nella dinamica dell’infortunio. Avveniva infatti che l’impresa forniva dei guanti antiscivolo per effettuare quel particolare tipo di lavoro, solo che – come emerso da una testimonianza – si usuravano nel giro di pochi minuti diventando inutili per la loro funzione. Per poterne riavere bisognava fare domanda scritta al magazziniere che vi dava corso con grande difficoltà. Addirittura, un testimone ha riferito che ‘sostituire un dpi (dispositivo di protezione individuale) era come avere un rene nuovo!’. Poteva la direzione aziendale ritenersi estranea a questa situazione? Beh, nel processo questa cosa non sono riusciti a dimostrarla, anzi. Inoltre, emergeva pure che se anche l’operaio avesse serrato male la morsa, ciò non sarebbe dipeso solo ed esclusivamente dalla sua negligenza perché l’impresa non ha mai disposto nulla sulle caratteristiche della morsa e sulle modalità della sua regolazione o sull’adeguatezza della stessa rispetto al tubo su cui il lavoratore doveva operare. Insomma, alla fine il Giudice ha dato ragione a Mario e ha giudicato l’azienda responsabile di quanto gli era successo. Un atto di giustizia, non raro in casi come questo ma che solitamente si concludono con un risarcimento irrisorio rispetto al danno ricevuto”.
Il risarcimento record
“E qui – conclude Antonella Franceschin – arriva l’inatteso lieto fine di questa brutta storia. Il Giudice, dopo aver affermato la responsabilità del datore di lavoro, oltre a liquidare le componenti ‘scontate’ di danno (danno non patrimoniale permanente e temporaneo) misurando il danno biologico complessivo a 188.555,62 euro (l'Inail gliene aveva liquidato una rendita il cui valore capitalizzato era pari a 57.984,01 euro, per cui il danno differenziale risarcibile, alla fine, è di 130.071,61 euro) ha anche deciso di liquidare un ulteriore importo piuttosto sostanzioso ritenendo, giustamente, che oltre al danno patrimoniale da lesione della capacità di lavoro specifica consolidatosi in relazione al tempo trascorso dalla data del licenziamento al momento della sentenza a cui riferiscono le somme che ho detto prima, esiste anche il danno futuro, ossia la minore capacità che avrà Mario di produrre reddito a causa dell’infortunio subito. E così partendo da quello che era il reddito annuo medio di Mario prima dell’incidente, detraendo le somme ricevute a diverso titolo dal giorno del licenziamento a oggi, considerando gli anni che gli rimanevano alla pensione, misurando la minor remuneratività dei possibili impieghi futuri e applicando determinate tabelle del Ministero del lavoro, ha infine riconosciuto a Mario altri 205. 211,39 euro, arrivando quindi a determinare il danno totale risarcibile con la cifra di 335 283,00 euro, oltre a 1000 euro in più per le spese mediche sostenute, dopo la definizione del provvedimento di liquidazione del danno da parte dell’Inail. Insomma il giudice ha condannato l’azienda in questione a rifondere a Mario per 336.283 euro, il che oggettivamente è molto di più di quanto si ottiene in tantissimi casi analoghi. Voglio ricordare che i licenziamenti per inidoneità a causa di malattie professionali o infortuni nei quali è ravvisabile una responsabilità del datore di lavoro sono aumentati, direi in modo esponenziale, negli ultimi anni ma spesso tutto si conclude con i cosiddetti ‘accomodamenti ragionevoli’ che offrono scarsissima tutela alle vittime dell’infortunio soprattutto se impiegati nelle medie e piccole imprese. Il Giudice, al contrario, ha provveduto a una reale tutela risarcitoria, con una cifra sicuramente più adeguata al danno subito dal lavoratore. Ci tengo a ringraziare l’avvocata Camilla Cenci dello Studio Giancarlo Moro per l’eccezionale risultato raggiunto e lo splendido lavoro svolto. Ora l’auspicio è che questa sentenza possa fare scuola a difesa dei tanti Mario e Maria che per vivere vanno a lavorare e che in nome del profitto spesso rischiano di subire degli infortuni in grado di compromettergli la possibilità di condurre una vita dignitosa”.