Citius, altius, fortius. Communiter: Più veloce, più in alto, più forte. Insieme. In quest’ultima edizione dei giochi il motto olimpico può dirsi più che onorato. L’espressione, coniata da Henri Didon e proposta da Pierre de Coubertin, fu adottata per la prima volta alle Olimpiadi di Parigi del 1924. Corsi e ricorsi storici, commenterebbero gli accademici di fronte a un destino delle parole che si compie.

Sport e solidarietà

Il motto era stato scelto cento anni fa per sottolineare il valore unificante dello sport e l'importanza della solidarietà. Due concetti che in queste Olimpiadi parigine, un secolo dopo, trionfano grazie ai gesti e ai messaggi degli atleti. E soprattutto delle atlete.

Leggi anche

Pilato, elogio del quarto posto

La prima a farlo, forse in maniera inconsapevole, ma per questo ancora più forte, è stata la nuotatrice italiana Benedetta Pilato, che tra le lacrime di gioia e di fatica ha ribadito la sua soddisfazione per il quarto posto. È un elogio del fallimento – per prendere in prestito il titolo di un saggio di Massimo Recalcati – che tanto fa bene a una società in cui “farcela” è diventato l’unico valore.

Il podio non è l’unica vittoria

Se oggi, secondo le statistiche, tre giovani su quattro avvertono l’esigenza di un supporto psicologico e vivono un disagio, è anche perché la società li educa alla paura del fallimento, inteso come fatale certificazione di inettitudine all’esistenza. Il messaggio di Benedetta Pilato è dirompente, perché rovescia l’idea del bicchiere mezzo vuoto: il successo di arrivare prima rispetto a centinaia di colleghe arrivate dopo, o nemmeno qualificate per Parigi, piuttosto che la delusione di essere quarta rispetto alle prime tre.

L’importanza di partecipare

Sembrerebbe un controsenso in un contesto agonistico dove ci si sfida all’ultimo centesimo per ottenere una medaglia. E invece sta tutto qui il senso di quel “partecipare è più importante che vincere”. Lo sport è il luogo delle eccellenze, della fatica fisica, dei primi e degli ultimi posti. Ma può essere – e questi atleti olimpionici lo stanno dimostrando – un mezzo privilegiato per far vincere anche i diritti.

Olimpiadi e diritti civili

C’è stato Jesse Owens, con la sua folle corsa contro il razzismo a Berlino 1936. Ci sono stati i pugni sul podio dei due velocisti americani John Carlos e Tommie Smith, a Città del Messico 1968. E c’è stata in questi giorni la velocista afgana Kimia Yousofi, un ultimo posto da record. Ha tagliato il traguardo come centesima e poi mostrato il messaggio sotto il pettorale: “Istruzione e sport i nostri diritti”. Il vero podio è esserci, per chi ha dovuto lasciare il proprio paese a causa dei talebani.

Leggi anche

Il mezzo è il messaggio

Yousofi sapeva di non avere alcuna speranza di passare il turno, ma sapeva anche che avrebbe potuto mandare un messaggio in mondovisione. Nata e cresciuta in Iran, ha scelto di tornare in Afghanistan con l’obiettivo di essere eletta portabandiera della sua nazione, pur sapendo di avere ottime possibilità per entrare nella squadra olimpica dei rifugiati.

Rifugiati d’Oro

Il team dei rifugiati, dal canto suo, si è guadagnato un importante record all’ombra della Tour Eiffel: la prima storica medaglia, conquistata sul ring da Cindy Ngamba. La giovane pugile camerunense vive da quindici anni in Inghilterra, dove è stato concesso asilo politico a lei e alla sua famiglia. A fine combattimento ha indicato lo stemma sul petto dei “senza patria” come lei, che non hanno ancora un passaporto. Ma anche il simbolo di tutti quelli che attendono in un limbo, quelli che in Francia chiamano i “sans papier”, i senza documenti.

La discriminazione al tappeto

Difficile, per Ngamba pensare di tornare a baciare la sua terra, perché già da tempo ha dichiarato la sua omosessualità e in patria rischierebbe l’arresto e la tortura. Ma c’è un altro stato africano dove le persone appartenenti alla comunità Lgbtqia+ vengono perseguitate: l’Algeria. Sarebbe bastato questo a fugare ogni dubbio su Imane Khelif, anche lei medaglia sicura, da giorni oggetto di una vera e propria persecuzione.

Leggi anche

Khelif e la gogna mediatica

La pugile algerina è diventata un altro simbolo importante della lotta per la dignità di tutte le donne, come da lei stessa dichiarato. La boxeur iperandrogina è stata vittima di una sistematica violazione della sua privacy, nonché dei suoi diritti, in seguito all’abbandono del ring da parte dell’italiana Angela Carini, e alle illazioni di esponenti del governo italiano su presunte irregolarità legate all’identità sessuale di Khelif.

La bomba delle kake news

Nonostante la spiegazione scientifica sulla condizione fisiologica dell’atleta non abbia tardato ad arrivare (iperandroginia) la bomba della disinformazione è comunque esplosa. Per giorni le testate italiane hanno sfornato titoli ambigui, dandoli in pasto a un analfabetismo funzionale galoppante, che non accetta di essersi sbagliato neanche di fronte all’evidenza dei fatti.

Il video di Maddalena Corvaglia

Nonostante il caso fosse ormai chiarito, per esempio, la showgirl Maddalena Corvaglia ha pubblicato un video in cui afferma: “Se sei un uomo che si identifica in una donna e hai il diritto di combattere alle Olimpiadi contro una donna, allora un bambino che si identifica in un adulto ha il diritto di guidare la macchina e acquistare bevande alcoliche”. Pioggia di critiche e ironia sui social per lei.

Il bacio da Oro

Verrebbe da chiedersi come cresceranno i bambini se ascoltano simili affermazioni. Forse meglio mostrare loro la foto di Alice Bellandi, che dopo il suo oro nel judo corre a baciare la sua compagna Jasmine Martin, e spiegare che il mondo corre molto più veloce delle leggi che lo governano. Purtroppo, e per fortuna.

Leggi anche