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I ventuno anni di Willy erano quelli di un giovane aiuto-cuoco. Quelli di un ragazzo che aveva trovato lavoro poco dopo essersi diplomato. Che divideva la sua vita tra quel lavoro, l’impegno sociale, la passione sportiva per il calcio e i divertimenti con gli amici. Willy era un giovane come tanti, con gli stessi sogni di tanti. Era nato in Italia e a Paliano era arrivato quando aveva solo tre anni. Così sua sentiva quella città da aver partecipato anche alla rievocazione storica di Ferragosto, in costume. E per Paliano Willy era uno dei suoi figli. Non importava che avesse la pelle nera o che i suoi genitori fossero originari di Capoverde. Per questo oggi (12 settembre) Paliano tutta si riunisce nello stadio comunale. L'eredità di Willy sarà tutta in quel campo verde, nelle magliette bianche che indosseranno i suoi amici. Perché Willy era giovane e innocente. Il resto non conta.
Risuona ancora l’eco di una settimana di cronache e polemiche. Cronache di un pestaggio mortale e polemiche sulla banalità del male. Eppure quest’omicidio non può essere banalizzato semplicemente affermando che i carnefici sono fascisti e che lo hanno ucciso perché aveva la pelle nera. Willy era italiano. Era un ragazzo come tanti. E il suo assassinio è persino più grave di come è stato semplificato. Ci dice, infatti, che il nostro paese è ormai impregnato da un modello fascistoide, esacerbato da un clima conflittuale di odio e sdoganato da una certa politica e da una certa informazione. Che questo modello attecchisce con più forza laddove il contesto economico e sociale è degradato perché è proprio lì che l’impoverimento culturale si esercita attraverso una recrudescenza della violenza e il mito dell’uomo forte che prevarica, anche con mezzi illeciti, gli altri.
Così fu tre anni fa, nella stessa provincia del frusinate, per un altro ragazzo, capelli chiari e pelle bianca, che si chiamava Emanuele Morganti. Un omicidio molto simile a quello di Willy. Con un movente oscuro e il sospetto che a scatenare la rabbia cieca degli assassini sia stato il fatto che Emanuele provenisse dalla campagna, dalla periferia del paese, da una frazione. In entrambi i casi, i contesti familiari di chi ha sferrato i colpi fino a uccidere sono terrificanti e arrivano a favorire, giustificare e persino alimentare questo genere di pulsioni. “In fin dei conti che hanno fatto?”, si domandavano qualche giorno fa i parenti dei quattro carnefici di Willy parlando con i giornalisti del quotidiano la Repubblica. E la risposta sconcertante, più razzista persino dell’atto stesso dell’omicidio, era: “Niente. Hanno solo ucciso un extracomunitario”.
Willy, invece, era la comunità. Lo hanno dimostrato le fiaccolate dei giorni scorsi, la solidarietà e la vicinanza dei suoi compagni e amici alla famiglia, la raccolta fondi voluta dalle istituzioni per pagare le spese del funerale e quella lanciata dal suo datore di lavoro e dai colleghi per sostenere la madre, il padre e la sorella. Lo dimostra la famiglia che dice che quei soldi verranno devoluti in beneficenza e che all'odio, qualunque sia la sua matrice, non bisogna mai piegarsi. Ecco questa è l’altra storia da raccontare, l’altro modello: la comunità che in ogni sua parte – scuola, lavoro, socialità – si muove e reagisce, si ricompone e si oppone alle derive violente e fascistoidi. È questa parte – troppo poco raccontata e troppo poco ascoltata - della storia di Willy che può diventare il vero antidoto all’odio. A noi come sindacato il dovere di rappresentarla, darle forza e sostegno, amplificarne la voce.
Giuseppe Massafra, segretario nazionale della Cgil