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"Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
Ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi”.
È quanto prevede all’articolo 23 la Dichiarazione universale dei diritti umani adottata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite. Un articolo che a 76 anni dalla sua formulazione ancora non vede la sua piena applicazione e convive con i 50 milioni di lavoratori coinvolti nelle reti di assoggettamento e riduzione in schiavitù a livello globale tra i quali, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale del lavoro, più di 12 milioni sono minorenni.
Schiavitù 4.0
Per le Nazioni unite la schiavitù moderna implica situazioni di sfruttamento in cui una persona si trova e non può rifiutarsi o andarsene a causa di minacce, violenza, coercizione, inganno o abuso di potere. Questo implica salari da fame, orari di lavoro che toccano anche le 12 e le 14 ore, lavoro nero, condizioni lavorative che compromettono salute e sicurezza, precarietà estrema e impossibilità di costituire sindacati o di aderirvi. Tutti elementi che degradano la condizione umana del singolo e delle comunità con evidente violazione dei diritti fondamentali.
Agroalimentare, edilizia, logistica delle merci, lavoro di cura, tessile sono i principali settori colpiti dal mancato rispetto dei diritti dei lavoratori. Secondo un’analisi pubblicata sulla rivista Human Rights Quarterly, Canada, Svezia, Nuova Zelanda, Norvegia e Portogallo sono i cinque Paesi in cui i diritti dei lavoratori sono più tutelati, mentre Iran, Siria, Corea del Nord, Cina e Iraq quelli in cui sono più spesso violati.
Violazioni nostrane
L’Italia non è presente tra i Paesi citati, ma per capire come anche la nostra sia una terra di diritti dei lavoratori violati, basta pensare a quanto accaduto ieri, con i quattro lavoratori morti e uno disperso nell’esplosione del deposito Eni di Calenzano, o alle 834 inchieste avviate sullo sfruttamento dei lavoratori dall’approvazione della legge del 2016 contro il caporalato, come si legge nel rapporto del Centro di ricerca l’Altro Diritto e l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. Un corriere Amazon è stato licenziato perché non è riuscito a consegnare 150 pacchi in 6 ore.
E ancora, nella Relazione della Commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro in Italia dal titolo significativo “Dal caporale all’algoritmo: l’evoluzione dello sfruttamento del lavoro” si legge che, “favorita dalla rivoluzione digitale degli ultimi anni, l’espansione delle imprese nel settore logistico, nei comparti del corrierato, dei trasporti a lunga percorrenza e del magazzino, avrebbe determinato il repentino scivolamento del lavoro irregolare verso le sfumature più accese dello sfruttamento”. Ad essere maggiormente sfruttati sono i lavoratori stranieri, regolari e non, ma non manca anche una buona percentuale di italiani.
C’è poi il settore tessile, e qui ritorniamo all’estero, perché secondo Fashion Revolution “quasi il 97% degli articoli di moda del settore proviene da Paesi come il Bangladesh, la Cambogia, la Cina, l’India, l’Indonesia, le Filippine, la Thailandia o il Vietnam” e “la maggior parte dei lavoratori dell’abbigliamento non è in grado di permettersi i bisogni umani di base come cibo, alloggio e assistenza sanitaria perché sono pagati con salari bassi”. E in Europa, i salari dei lavoratori tessili sono ben al di sotto della soglia di povertà.
Di recente la denuncia arrivata dal distretto tessile di Prato, in Toscana, dove si parla di giornate lavorative di 12 ore 7 giorni alla settimana. Tornando al settore agricolo e al sopra citato rapporto, ci sono decine di migliaia di lavoratori stranieri senza tutele e nessun diritto garantito dai contratti e dalla legge, con una paga media tra i 20 e i 30 euro al giorno, sottoposti al lavoro a cottimo per un compenso di 3/4 euro per un cassone di ortaggi da 375 chili. Senza contare i casi emersi di vera e propria schiavitù, o chi muore durante il lavoro e magari, come accaduto nel Lazio a Satnam, buttato lungo una strada dal datore di lavoro in fin di vita dopo l’amputazione di un braccio.
Come si può ben vedere siamo ben lontani dal pieno rispetto dell’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani, nel mondo e in Italia,e risultano insufficienti le misure adottate fino a ora dai governi. E non è da trascurare nemmeno l’articolo 24, è uno dei più belli perché recita così: “Ogni individuo ha diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite”. Perché, parafrasando il Deuteronomio, non di solo lavoro vive l’uomo.