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Nelle carceri italiane ci sono stati 33 suicidi in soli sei mesi. È la conferma di una tendenza in atto che dovrebbe portare a raggiungere le cifre dello scorso anno: 85. L’estate è infatti un periodo molto difficile per chi lo trascorre in una cella, tanto che nell’agosto del 2022 si è registrato un suicidio ogni due giorni. A pesare sono le condizioni dei nostri istituti di pena, ma non solamente. Come sostiene Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, è necessario prima di tutto intervenire sulla cultura esterna al carcere.
Palma ci ricorda che stiamo parlando delle persone "più fragili e più deboli", e lo fa citando i due ultimi suicidi: un uomo appena entrato in carcere e una donna, condannata a quattro anni e dieci mesi, alla quale mancava un mese e mezzo alla scarcerazione. “La sensazione – afferma - è di essere in un mondo di cui nessuno si interessa e i detenuti pensano che ne usciranno peggio di quando sono entrati, cioè con lo stigma del carcere. Nel caso della donna, subentra anche la paura del mondo esterno: ‘dopo 4 anni qui dentro, rientrerò nella stessa situazione di prima’. Tutto ciò, più che interrogare il carcere, interroga l’idea che la collettività ha del carcere”.
Risorse, soprattutto umane
Gli interrogativi cadono anche sulle risorse, ma non in termini puramente di denaro, bensì “di qualificazione del personale, affinché abbia connotazioni sociali e faccia da mediatore tra interno ed esterno del carcere: non può essere affidato tutto alla polizia penitenziaria, che oltretutto non è preparata per questo compito”.
Un altro elemento esterno fondamentale, secondo il Garante, è l’assenza dei luoghi di aggregazione, senza i quali la società “manda tutte le contraddizioni a finire nel penale e nel carcere. Ci sono più di 1.500 persone detenute per pene inferiori a un anno, altri 2.700 tra uno e due anni: sono persone che rappresentano povertà e minorità sociale. Alcune di loro non hanno nemmeno casa e quindi non posso usufruire degli arresti domiciliari, a volte non sanno nemmeno cosa potrebbero chiedere proprio per una condizione di minorità culturale. Tutte contraddizioni che dovrebbero essere state intercettate dal territorio, prima e con altri strumenti”, ma così non accade.
Il carcere come mera punizione
Mauro Palma ricorda i rudimenti fondamentali, i princìpi che dovrebbero essere scontati per chi di carcere si occupa a ogni livello: "Il diritto penale deve essere la misura estrema per chi ha commesso reati minori, non la prima. I fatti ci dicono che il carcere non potrà fare niente per queste persone, perché il carcere è una macchina complessa. In pochi mesi non si riesce a mettere in campo alcun programma e i detenuti si riconsegneranno al territorio esterno tali e quali a quando sono stati arrestati, in una condizione di solitudine, in situazioni destinate a ripetersi, con grandi probabilità di ritornare dentro. Sarà stata solamente una sottrazione di vita”.
“Anche economicamente è una soluzione sballata – prosegue -. La carcerazione sembra una misura buona per avere consenso politico nell’opinione pubblica: dimostrare che, se una persona sbaglia, la si prende e sbatte dentro. Le difficoltà di una società complessa vengono affrontate espungendole, facendole finire nel penale, nella carcerazione”.
Circa l'esito delle pressioni dell’associazionismo impegnato su questo fronte, Palma esorta le associazioni stesse a fare rete, a uscire dalla tentazione del protagonismo individuale, perché solamente con un impulso unitario e massiccio si possono ottenere risultati, anche sul fronte della sensibilizzazione dell’opinione pubblica.
Il reato di tortura è intoccabile
Impossibile non parlare con il Garante nazionale delle persone private della libertà delle violenze emerse nella questura di Verona e dell’intenzione del governo di modificare il reato di tortura. Palma si dice convinto che queste proposte sono destinate a subire una battuta d’arresto in quanto irricevibili. “C’è un segnale fortemente negativo che viene dato: se il giorno stesso in cui vengono alla luce i fatti di Verona, un deputato ed ex sindaco di Verona (Flavio Tosi, ndr) dice ‘cambiamo il reato’, siamo davanti a un messaggio di implicita impunità”.
“A livello sociale – spiega - non si è elaborata fino in fondo la consapevolezza della realtà di chi ha la responsabilità di una persona, della sua restrizione della libertà, e poi esercita violenza su quella stessa persona. L’articolo 13 della Costituzione ci dice che è proibita ogni violenza psichica o fisica sulle persone sottoposte a restrizione di libertà ed è un segnale molto forte che si è stentato a rendere operativo per decenni. Ora che lo è, anche grazie a inchieste e processi, anziché capire come la giurisprudenza possa essere anche un’indicazione culturale per persone che hanno commesso determinate violenze, il messaggio è: state tranquilli che cambiamo la legge. Questa è una grossa responsabilità”.
Mauro Palma ricorda anche che durante la scorsa legislatura c’era stata una proposta di modifica della Costituzione e del comma che prevede si debba tendere alla rieducazione del condannato con prima firmataria Giorgia Meloni, della quale non si trova invece traccia nella riproposizione della proposta nell’attuale legislatura e questo proprio per l’attuale responsabilità di governo. L’ indicazione culturale “rimane però particolarmente grave”.
“Sono preoccupato – conclude - perché, indipendentemente dallo schieramento politico, sta guadagnando consensi nell’opinione pubblica l’insofferenza nei confronti delle difficoltà e la ricerca di soluzioni sbrigative. Un tempo la complessità era un valore, ora è un fastidio”.