Pubblichiamo l’incipit dell’articolo “Il linguaggio e la società” (uscito sulla Rivista semestrale online La Magistratura, a cura dell’Associazione nazionale magistrati) e scaricabile, nella sua versione completa, CLICCANDO QUI


All’interno della campagna #leparolecontano, l’Enciclopedia Italia ha selezionato il termine “femminicidio” come parola dell’anno 2023. Dal Vocabolario Treccani leggiamo: “Femminicìdio s.m. [comp. del s.f. femmina e -cidio]. - Uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale che, penetrata nel senso comune anche attraverso la lingua, ha impresso sulla concezione della donna il marchio di una presunta, e sempre infondata, inferiorità e subordinazione rispetto all’uomo”.

Ovvero indica l’omicidio di donne avvenuto solo perché erano donne, per mano di un uomo, che sia un ex, un marito, un compagno, un uomo che le voleva e non accettava il loro rifiuto ad appartenergli. Il primo elemento da sottolineare riguarda il fatto che la violenza sulle donne nulla ha a che fare con l’amore o l’attrazione. Che si declini come violenza fisica, psicologica, sessuale, economica o molestie sul posto di lavoro, essa trae la sua origine da un unico fattore: l’asimmetria di potere tra vittima e carnefice.

Altro elemento da sottolineare è che, nonostante le leggi in continuo aggiornamento, il numero di femminicidi è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi 20 anni, mentre aumentano gli stupri e diminuisce l’età degli stupratori e delle vittime. Le cronache ci consegnano, ogni 25 novembre, sempre le stesse statistiche: una donna uccisa circa ogni 3 giorni. E rimanendo al tema della narrazione collettiva che i media ne fanno, notiamo che delle vittime sappiamo tutto, come del carnefice e del loro rapporto: come si sono conosciuti, l’evoluzione della loro relazione, quell’ultimo, fatale, incontro.

In altre parole, gli organi d’informazione li affrontano come un fatto di cronaca, ovvero come un fatto privato. Ma così non è. La violenza contro le donne non si consuma nel rapporto tra vittima e carnefice, è un problema strutturale e collettivo che affonda le sue radici nella cultura del nostro Paese e di cui il femminicidio rappresenta solo la punta di un iceberg ancora sommerso e da indagare.

Per analizzarlo, partiamo dal vedere l’evoluzione dell’impianto normativo italiano su questa materia. Guardando alla storia delle conquiste sui diritti delle donne nel nostro Paese, è bene ricordare che solo nel 1963 una sentenza della Corte di cassazione abolisce lo ius corrigendi, ovvero il diritto dell’uomo a picchiare moglie e figli con il fine di correggerne i comportamenti da lui giudicati non accettabili.

Fino al 1975 si parla di patria potestà, per poi passare alla potestà genitoriale (quindi sempre con una accezione proprietaria della progenie) che viene sostituita solo nel 2013 dalla responsabilità genitoriale. Fino al 1981 è legale il matrimonio riparatore, che estingueva il reato di stupro.

Nello stesso anno viene abolito il delitto d’onore, ovvero l’attenuante giuridica al femminicidio dove la lesione dell’onore del marito era anche una risposta data malamente in pubblico, un abbigliamento della donna giudicato inadeguato, fino ad arrivare al tradimento. Il delitto d’onore si estendeva anche alla sorella del pater familias e alle figlie femmine.

Fino al 1996 lo stupro era un reato contro la morale, spesso messo a tacere con il matrimonio riparatore. Ovvero, fino a quarant’anni fa, l’ordinamento giuridico del nostro Paese sanciva per legge l’appartenenza del corpo e della vita della donna a quella di uomo qualsiasi che, solo per il desiderio che l’oggetto del suo “desiderio” gli appartenesse, aveva tutto il diritto di farne ciò che desiderava.

Se, per esempio, una donna si fosse opposta al matrimonio, all’uomo sarebbe bastato stuprarla e lei sarebbe stata costretta a sposare il suo carnefice, altrimenti nessuno l’avrebbe più voluta. Quarant’anni, dal punto di vista della trasformazione culturale, equivale a dire ieri. (...)

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Giorgia Fattinnanzi è la responsabile contrasto alla violenza di genere Cgil nazionale