La recente pubblicazione del rapporto Istat sulla discriminazione lavorativa occasionata dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere ci aiuta a fare il punto sull’attuale situazione inquadrandola nel periodo storico che stiamo attraversando, particolarmente complesso anche da questo punto di vista.

La ricerca in questione ha visto la Cgil particolarmente attiva attraverso il suo ufficio Nuovi Diritti: siamo stati infatti parte del tavolo di consultazione permanente per la promozione dei diritti e la tutela delle persone LGBTQIA+ costituito presso la presidenza del Consiglio e coordinato da Unar e Dipartimento delle Pari opportunità, che ha in un certo qual senso ideato e commissionato quell’indagine , finanziata con i fondi del Pon inclusione. Un tavolo, è bene precisarlo, che al momento non esiste più stante l’affermazione della attuale ministra, peraltro smentita dai fatti e dai decreti di nomina, relativa alla presunta estraneità del ministero della Famiglia, Natalità e Pari opportunità alle questioni riguardanti la discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere: l’ennesima certificazione, qualora la si ritenesse necessaria, della volontà dell’attuale governo di estrema destra di voler scansare la tematica quando non si tratti invece di affrontarla con intenti punitivi, propagandistici e discriminatori.

Oltre alla presenza nel tavolo, la nostra organizzazione è stata audita dall’Istituto di statistica nella qualità di stakeholder relativamente alle buone prassi in essere nel mondo del lavoro per il contrasto della discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere. È dunque per la nostra organizzazione motivo di molta soddisfazione l’ulteriore pubblicazione dei risultati dell’indagine, sia per il contributo che abbiamo fornito sia per la preziosa fonte di dati che rappresenta per una lettura attenta e corretta della realtà lavorativa del campione indagato.

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La ricerca, dunque, si compone di vari step: nel 2022 e 2023 sono stati pubblicati i risultati delle indagini svolte su due diversi campioni, il primo rappresentato dalle circa 21mila persone in unione civile al momento della ricerca (o precedentemente in unione civile), il secondo, più limitato, da persone LGBT+ non in unione civile.

L’ulteriore indagine tarata invece sulle persone transgender e non binarie, sarà invece oggetto di pubblicazione nei prossimi mesi: in tutti questi casi il focus resta sempre lo stesso ed è rappresentato dalla discriminazione lavorativa per orientamento sessuale e identità di genere. La pubblicazione del 2024, uscita in questi giorni, invece, oltre ad illustrare i criteri metodologici adottati, si sofferma proprio sull’atteggiamento delle imprese e dei datori di lavoro in generale e sulle informazioni ottenute attraverso le interviste agli stakeholder.

Relativamente al cosiddetto diversity management e in particolare all’inclusione lavorativa delle persone LGBTQIA+ la ricerca ci restituisce un panorama abbastanza intuibile per quella che è la nostra conoscenza del mondo imprenditoriale e del mondo del lavoro in generale. L’indagine in questo ambito verteva sull’esistenza di policy e diritti specifici per le persone LGBTQIA+, sulla sottoscrizione di cosiddette “carte dei valori” e sull’eventuale attività esterna per la promozione di una cultura dell’inclusione.

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Posto che ovviamente l’applicazione delle norme previste dalla legge sulle unioni civili è obbligatoria (ancorché non abbia dato luogo a un gran numero di richieste di congedo), l’indagine si è soffermata dunque sull’adozione di misure non previste da norme obbligatorie ma su strumenti di volontaria istituzione (promozione culturale dell’inclusione, eventi formativi, misure ad hoc per la genitorialità e la transizione quali congedi specifici per genitori non ancora riconosciuti o utilizzo dei servizi igienici corrispondenti all’identità di genere): la percentuale varia tanto in ragione del dimensionamento dell’impresa, andando dal 4,4% delle imprese tra i 50 e i 499 dipendenti al 14,6 di quelle dai 500 in su.

La formale adesione ai principi di non discriminazione interessa invece il 15,4 delle imprese dai 50 ai 499 dipendenti e il 34,1 di quelle dai 500 in su. La dichiarazione di voler includere le diversità è invece fatta propria, rispettivamente, dal 2,9 e dal 13,3%. Iniziative specifiche esterne per la valorizzazione delle differenze riguardano l’1,4 e il 7,8% delle imprese secondo la scansione già detta (sotto o sopra i 500 addetti).

Le motivazioni dichiarate, anch’esse facilmente ipotizzabili, vanno dalla prevenzione degli atti discriminatori alla volontà di favorire il benessere lavorativo, dall’acquisizione di talenti all’attrazione di lavoratrici e lavoratori a prescindere dal loro orientamento e dalla loro identità di genere fino al rafforzamento dello spirito di gruppo e all’aspetto reputazionale. Chi invece non adotta nessuno degli strumenti precedenti lo fa perché non ne avverte la necessità o non la considera prioritaria, perché ritiene che le misure di legge siano sufficienti a creare inclusione o non ritiene che lavoratrici e lavoratori LGBT+ debbano godere di previsioni ad hoc.

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Maggiore attenzione è sicuramente dedicata invece alle politiche per disabilità o genere, rispetto a quanto si fa per orientamento sessuale e identità di genere. Le interviste agli stakeholder, tra i quali eravamo ricompresi al pari delle altre due confederazioni, di enti della PA, di organismi di parità, realtà associative e servizi per l’impiego, ha ugualmente dato interessanti risultati: la percezione della discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere è ampiamente condivisa e vi è la consapevolezza di una maggiore incidenza sulle donne lesbiche (con importanti aspetti intersezionali) e sulle persone trans che subiscono maggiori discriminazioni già nell’accesso al lavoro e nei percorsi scolastici.

Condivisa è pure la scarsità degli strumenti legislativi, eccezion fatta per la Costituzione e il decreto legislativo 216/2003 discendente dalla Direttiva europea antidiscriminatoria. Molestie e violenze sono contrastate sui luoghi di lavoro senza però focus specifici sulle persone LGBTQIA+ e la tutela contro i licenziamenti discriminatori è indebolita dalle modifiche all’art. 18 dello Statuto.

Sempre nella percezione degli stakeholder servirebbe promuovere una cultura dell’inclusione a partire dalla responsabilità dello Stato, servirebbero interventi legislativi in tal senso e, in attesa che questo avvenga, servirebbe sviluppare la contrattazione inclusiva e svolgere un ruolo di sensibilizzazione da parte di imprese e sindacati anche attraverso formazione interna sul tema.

Si ha poi la sensazione che molte delle persone giovani che si trasferiscono all’estero lo facciano anche per cercare luoghi più accoglienti da questo punto di vista: sicuramente un lavoro di rete e anche la disponibilità, come nel caso di queste ricerche, di dati statistici solidi favorirebbe processi virtuosi.

Sandro Gallittu, responsabile dell'Ufficio Nuovi diritti della Cgil nazionale