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Capitolo conclusivo di una lunga battaglia iniziata qualche anno prima dal Partito radicale, la legge 194 (confermata da un referendum nel 1981) rende legale l’aborto attraverso l’abrogazione delle norme del titolo X del Libro II del codice penale (gli articoli 545-555 configuravano l’interruzione volontaria di gravidanza come “delitto contro l’integrità della stirpe” punibile con la reclusione, a seconda delle fattispecie di reato, fino anche a 12 anni).
Già nel 1971 la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’articolo 553 del Codice penale, che prevedeva come reato la propaganda degli anticoncezionali. Sempre nel 1971 veniva presentato il primo progetto di legge in materia (n. 1762) firmato dai senatori socialisti Banfi, Caleffi, Fenoaltea: la proposta - così come quella presentata nell’ottobre dello stesso anno - non sarà nemmeno discussa.
L’11 febbraio di tre anni più tardi, Loris Fortuna (il deputato socialista che aveva dato il suo nome alla legge sul divorzio approvata nel 1970 dal Parlamento e confermata dal referendum del 12 maggio 1974) presenterà un nuovo progetto di legge sulla depenalizzazione e legalizzazione dell’aborto sul quale convergeranno il Partito radicale e il Movimento di liberazione della donna.
Il 18 febbraio del 1975 la Corte costituzionale dichiarerà parzialmente illegittimo l’articolo 546 del codice penale, riconoscendo la legittimità dell’aborto terapeutico, e il 29 aprile del 1975 il Parlamento approverà la legge 405 per l’istituzione dei consultori familiari. Tra febbraio e aprile 1975 vengono presentate sei proposte di legge sulla materia.
Intanto si cominciano a raccogliere le firme per un referendum abrogativo delle norme del codice penale che vietano l’aborto (l’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum) e inizia la discussione sul testo di legge unificato. Il 22 maggio 1978 la legge 194 viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana.
“È stata definitivamente approvata dal Parlamento, ora quindi è legge dello Stato, la regolamentazione dell’aborto che garantisce la maternità libera e responsabile - scriveva Maria Lorini, responsabile dell’Ufficio lavoratrici della Cgil, su Rassegna Sindacale il 1° giugno 1978, meno di 10 giorni dopo la promulgazione della legge - La legge come prima cosa risponde all’esigenza sociale di combattere l’aborto clandestino, vero dramma per le donne dei ceti popolari, che nessuna legislazione primitiva è in grado di contenere. (…) L’interruzione della gravidanza viene ora consentita da norme che, rispettando la libertà e la dignità della donna, rispondono nel contempo al problema umano e civile di non lasciare sola la donna in una circostanza certamente non facile, comunque la si voglia considerare. Come la legge che regola il divorzio, il provvedimento sull’aborto non rappresenta evidentemente un obbligo per alcuno, ed è perciò rispettoso degli orientamenti ideali e morali di ogni cittadino, di ogni donna, in quanto non impone a nessuno soluzioni in contrasto con le proprie concezioni ideologiche”.
“Nell’aborto - scriveva qualche anno prima Italo Calvino - chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte”.
“Non riderei tanto delle misure igienico-profilattiche - proseguiva lo scrittore rivolgendosi a Pasolini e con lui ai tanti che si opponevano alla legge - certo, a te un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera”. Parole pronunciate ormai quasi 50 anni fa eppure di una attualità disarmante.
Ogni anno nel mondo si praticano circa 45 milioni di aborti indotti e poco meno della metà non sono eseguiti in modo sicuro. Complicazioni causate dall’aborto provocano problemi di salute per almeno sette milioni di donne e la morte di circa 22mila donne l’anno nei Paesi in via di sviluppo.
In sei Paesi su dieci nel mondo l’aborto è illegale o è permesso solo in casi estremi (Angola, Egitto, Gabon, Guinea-Bissau, Madagascar, Senegal, Iraq, Laos, Isole Marshall, Filippine, Repubblica Dominicana, El Salvador, Haiti e Nicaragua sono solo alcuni dei Paesi in cui l’interruzione volontaria di gravidanza non è consentita nemmeno nel caso in cui la vita della gestante sia in pericolo. E’ di questi giorni la notizia secondo la quale la Corte suprema degli Stati Uniti potrebbe revocare il diritto all’aborto in vigore dal 1973 grazie proprio a una storica sentenza della stessa Corte, la Roe vs Wade, che stabilì che lo Stato non ha diritto d’intervenire nella decisione di una donna sulla sua gravidanza).
In Europa sono otto i Paesi ad avere una legislazione fortemente restrittiva nei confronti dell’interruzione volontaria di gravidanza. E anche nei paesi in cui la legge lo prevede, spesso, troppo spesso, abortire diventa quasi impossibile per l’altissima percentuale di medici obiettori (in Italia il 67% dei ginecologi, il 43,5% degli anestesisti e il 37,6% del personale non medico).
L’Associazione Luca Coscioni ha presentato alla Camera dei Deputati un’indagine che mostra come, su oltre 180 ospedali e consultori italiani che dovrebbero garantire l’interruzione volontaria di gravidanza, ci sono 31 strutture con il 100 per cento di obiettori di coscienza tra ginecologi, anestesisti, infermieri e assistenti sanitari ausiliari. Considerando anche le strutture con una percentuale superiore al 90 per cento si arriva a 50, e si sale a 80 contando quelle con un tasso di obiezione superiore all’80 per cento.
È lo spaccato di paese - di tanti paesi purtroppo - che se non odia le donne, certo non le ama ancora.