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Promotore delle battaglie per i diritti civili della popolazione nera degli Stati Uniti, Martin Luther King è diventato il simbolo della lotta contro la segregazione razziale. Vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1964, verrà assassinato il 4 aprile 1968 nel pieno della sua battaglia. Viene ucciso da un colpo di fucile mentre era sul balcone di un motel a Memphis da James Earl Ray, un criminale comune razzista. Come la maggior parte dei grandi eventi e degli omicidi politici del Novecento, il suo assassinio è ancora oggi circondato da misteri e circostanze non chiare che con ogni probabilità rimarranno tali per sempre.
Il 6 aprile l'Unità scriveva:
L’assassinio di Martin Luther King legittima il dubbio che la società americana non abbia più margini democratici per affrontare e risolvere il problema negro. Luther King non era un ribelle. Non predicava la rivolta dei ghetti negri ma la non violenza, non il potere negro ma l’integrazione e i diritti civili. E tuttavia da qualche tempo ogni manifestazione da lui diretta si trasformava contro la sua stessa volontà, in rivolta. Suo malgrado, forse, egli era perciò diventato un simbolo: il simbolo della drammatica difficoltà di uscire pacificamente dalla condizione di negro negli Stati Uniti. L’ultimo episodio della sua vita è rivelatore. A Memphis, il 28 marzo, Luther King aveva capeggiato una pacifica marcia di negri per i diritti civili. La marcia si trasformò in rivolta, contro le disposizioni dei suoi organizzatori. Luther King la deplorò. Ma una settimana dopo è stato barbaramente assassinato. La sua vita, la sua sola presenza di apostolo di un’altra America alla testa di sterminate masse negre era dunque diventata qualcosa che l’America razzista non poteva ormai più tollerare. Adesso si dirà che l’assassino è un pazzo o un fanatico. La verità è che questo pazzo o questo fanatico ha fatto esattamente quel che una società senza più margini lo ha spinto a fare: eliminare ogni mediazione democratica tra negri e bianchi per affermare la sola legge della violenza. E la violenza verrà. Verrà ancora la barbara violenza dei bianchi alla quale risponderà la terribile ma sacrosanta collera dei negri. L’America razzista avrà così, quel che si è meritato (…) Qualcuno afferma che l’assassinio di Martin Luther King segna l’inizio della estate della paura. Più esattamente noi diremmo che i barbari del nostro tempo vengono chiamati alla resa dei conti. In America prima di tutto, dove il conto da pagare - il conto di cento anni di schiavismo - sarà estremamente elevato. Nel mondo in secondo luogo, in un mondo che comprende, ormai, come il fenomeno nazista si possa riprodurre, sebbene in forme diverse, ogni volta che una grande potenza che nutre al suo interno il cancro del razzismo pretende al tempo stesso di imporre la propria legge con la forza delle armi o con una politica di intimidazione, di violenza, di ricatto, di corruzione.
Il presidente Johnson chiederà al popolo di non cedere alla violenza, la stessa che aveva ucciso King, ma in più di 120 città si registrarono atti violenti quali incendi e saccheggi. Il 7 aprile sarà dichiarato giorno di lutto nazionale. Su richiesta della vedova Coretta King al funerale del marito (svoltosi ad Atlanta, alla presenza dell’ex First Lady Jacqueline Kennedy, del vicepresidente Hubert Humphrey e di decine di migliaia di persone) sarà letto l’ultimo sermone che il reverendo aveva pronunciato il 4 febbraio di quell’anno. La bara venne trascinata da un carro con due asinelli della Georgia. Nel suo epitaffio si leggeva: «Free at last» (finalmente libero).
King non volle che fossero menzionati i suoi premi o altri onori che aveva ricevuto; chiese solamente di esser ricordato come una persona che si è impegnata per “dare da mangiare agli affamati, coprire coloro che non avevano i vestiti, essere chiaro e duro sulla questione della guerra in Vietnam e amare e servire l’umanità”. “Sono stato in cima alla montagna - diceva il reverendo il giorno prima di essere ucciso - E non mi importa. Come tutti, vorrei vivere una vita lunga. La longevità ha la sua importanza. Ma non mi interessa ora, voglio fare il volere di Dio. E Lui mi ha permesso di salire in cima alla montagna. E ho guardato giù, e ho visto la terra promessa. Potrei non arrivarci con voi. Ma voglio che sappiate stasera che noi, come popolo, arriveremo alla terra promessa. Sono così felice stasera. Non sono preoccupato di niente. Non temo nessun uomo”.
Barack Obama aveva due anni quando il 28 agosto del 1963 250mila persone ascoltavano Martin Luther King al Lincoln Memorial. Cinquant'anni dopo parlerà nello stesso luogo da presidente degli Stati Uniti; il primo afro-americano a entrare alla Casa Bianca. Con lui il deputato John Lewis, l’unico ancora vivente tra quelli che parlarono nella Marcia del 1963. “Abbiamo fatto tanta strada in questo Paese negli ultimi 50 anni - dirà - ma abbiamo tanta strada ancora da fare prima di realizzare il sogno di Martin Luther King”. Abbiamo ancora tanta strada da fare….