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La Cassazione ha confermato le condanne per la morte di Stefano Cucchi: 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale ai carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Una sentenza definitiva che arriva quasi 13 anni dopo la morte del ragazzo. Il percorso della giustizia è stato lungo e complicato, come ricorda Luigi Manconi, già senatore del Partito democratico ed ex presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, attualmente alla guida dell’associazione A Buon Diritto.
Manconi, lei ha seguito il caso Cucchi fin dai primissimi giorni. Si ricorda come ne venne a conoscenza e quali furono le sue prime impressioni all’epoca?
Ne venni a conoscenza per caso: all’epoca non ero parlamentare, svolgevo la mia ordinaria attività di docente di Sociologia dei fenomeni politici e, soprattutto, ero - come sono tutt'ora - presidente di 'A buon diritto', onlus che prestava molta attenzione alle vicende relative agli abusi di polizia. Quando appresi della cosa da un servizio del Tg3 indagai, per come era possibile fare, cioè sulla base di articoli di stampa molto esili e contraddittori e, insieme al presidente di Antigone Patrizio Gonnella, intervenimmo pubblicamente: scrivemmo un comunicato che, come anni dopo avrebbe detto il procuratore Musarò, diceva esattamente com'erano andate le cose. Il procuratore attribuisce, in effetti, a quel nostro comunicato una specie di capacità preveggente. In realtà, noi eravamo semplicemente stati molto attenti alle circostanze e avevamo seguito un percorso logico. Fatto sta che quella nostra ricostruzione che indicava nell’arma dei carabinieri la struttura presumibilmente responsabile delle violenze fu completamente ignorata. Addirittura lo stesso giorno in cui quel comunicato venne reso pubblico dalle agenzie, ricordo una telefonata di un cronista romano che tentò immediatamente d'indirizzare altrove la mia attenzione, evidentemente sollecitato da esponenti dell’arma dei carabinieri che già pochi giorni dopo la morte di Cucchi erano all’opera per depistare le indagini.
C’è stato un momento in cui le è sembrato che il sistema che si muoveva attorno a quel caso - le omissioni, le omertà, ma anche le intromissioni della politica - avrebbero reso impossibile l'affermazione di verità e giustizia?
Certamente il momento di massimo sconforto fu quando venne istruito il processo a carico dei poliziotti penitenziari perché ad avviso mio e della stessa Ilaria Cucchi la direzione era completamente sbagliata. Noi sostenevamo che fossero i carabinieri coloro che avevano avuto a che fare presumibilmente con la morte di Stefano, ma questa indicazione veniva disattesa e ci vollero prima delle testimonianze dall’interno dell’arma, poi delle intercettazioni che raccolsero vere e proprie confessioni telefoniche da parte di alcuni militari per indirizzare verso la giusta direzione le indagini che avrebbero portato al secondo processo e alle condanne.
Ripercorriamo le fasi, Manconi. Ci fu quel primo processo a carico dei poliziotti penitenziari che si concluse giustamente con le assoluzioni ma la svolta arrivò solo nove anni dopo l’omicidio con la confessione del carabiniere Tedesco e la prima testimonianza di cosa era accaduto nella caserma di via Appia. Un percorso davvero tortuoso.
È stato un percorso molto, molto accidentato. Ricordo che prima ancora delle confessioni vi furono delle testimonianze notevolmente dettagliate comunque provenienti dall’interno dell’arma dei carabinieri, da parte di militari che erano stati messi a conoscenza dell’accaduto o che avevano colto elementi tali da poter immaginare che i fatti si fossero svolti all’interno della caserma Casilina di Roma. Per me, però, resta cruciale un passaggio di questa vicenda che fu assai delicato e fonte di grandi riflessioni, incertezze, dubbi e perplessità: a cinque giorni dalla morte di Stefano, A Buon diritto onlus organizzò una conferenza stampa; il pomeriggio precedente i familiari consegnarono a me e alle mie collaboratrici, Valentina Calderone e Valentina Brinis, le foto che ritraevano Stefano sul tavolo dell’obitorio. Erano foto particolarmente crudeli che mostravano in maniera inequivocabile non solo che Stefano aveva subito violenze ma addirittura la dinamica, la successione, la scansione di queste violenze. Esitammo per un giorno e mezzo prima di deciderci a far circolare quelle foto. La famiglia affidò a noi la decisione e noi rifiutammo quella responsabilità perché a nostro avviso spettava solo ai familiari autorizzare che quello strazio, vissuto fino ad allora nella dimensione privata del lutto, diventasse un fatto pubblico, infine decidemmo di renderle pubbliche e fu un atto opportuno perché quelle foto determinarono un cambio di atteggiamento da parte dell’opinione pubblica. Quelle foto furono la prima testimonianza che i fatti non potevano essere negati.
Ieri la sentenza definitiva, come l’ha accolta?
Per la verità me l’aspettavo, ero convinto che il lavoro della procura di Roma fosse stato talmente attento, minuzioso e incontrovertibile che giustizia voleva che le sentenze di primo e secondo grado fossero confermate. E così, grazie al cielo, è avvenuto. Anche se non va mai dimenticato che ci sono voluti dodici anni e mezzo, un dolore davvero incommensurabile e la debilitazione fisica dei genitori di Stefano Rita e Giovanni.
La lotta in nome di Stefano Cucchi è una di quelle battaglie simbolo che ha segnato anche l’attività della sua associazione che, tra l’altro, ha da poco celebrato i vent’anni. In qualche modo ritiene che questo caso abbia segnato anche la coscienza civile del nostro Paese? L’abbia resa più sensibile?
Non nego il mio pessimismo. Questa lotta non ha segnato la coscienza civile e l’opinione pubblica del nostro Paese, ha segnato in profondità una parte della coscienza civile e una parte dell’opinione pubblica. Quando succedono fatti di questo genere non va mai dimenticato che è assai probabile statisticamente che la maggior parte dei cittadini italiani continui a ignorare chi sia stato Stefano Cucchi e che tra coloro che, invece, ne conoscono il nome, il cognome e la sorte restano molti gli ostili, i diffidenti, gli insensibili. Poi è vero anche che una vicenda come questa o come quella di Federico Aldovrandi sicuramente hanno contribuito in maniera rilevantissima ad accrescere la sensibilità dei cittadini italiani sul tema delicatissimo del rapporto tra cittadini e Stato, perché in un caso come nell’altro ci sono state due sentenze definitive che hanno affermato la responsabilità di appartenenti a corpi dello Stato.