Quando si parla di caporalato, la mente corre subito all’agricoltura, ai campi di pomodori, al Meridione battuto dal sole. Eppure lo sfruttamento del lavoro, soprattutto di quello migrante, in Italia non ha certo confini così ristretti. Lo dimostra un’inchiesta giudiziaria che parte dal ricco centro-nord, dalla filiera degli appalti, dai cantieri navali della Fincantieri. Nel maggio scorso, una mega operazione della guardia di finanza chiamata “Global pay” ha portato alla denuncia di 19 persone, ha coinvolto 16 società, e ha permesso il sequestro di 350mila euro. Tra i reati contestati, ci sono “intermediazione illecita” e “sfruttamento del lavoro”, “truffa aggravata ai danni dell’Inps”, frode fiscale, “indebita compensazione dei tributi” e omessa vigilanza sanitaria.
Le società sotto accusa lavoravano nel porto di Ancona, ma hanno sede legale oltre che nelle Marche, in Campania, Puglia, Basilicata, Friuli Venezia Giulia e Veneto. Alle loro dipendenze c’erano complessivamente 416 operai in vari cantieri italiani. Di questi, 146 lavoravano presso la Fincantieri di Ancona, che però è risultata estranea ai reati contestati. Sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme gialle, come spesso accade, è infatti finito il complesso mondo degli appalti e dei subappalti nella cantieristica.
Gli operai, perlopiù bengalesi, erano sottopagati, costretti a tagliarsi lo stipendio per pagare il pizzo al boss e a vivere in alloggi fatiscenti. In più, le società hanno emesso fatture false per 15 milioni di euro e buste paga fittizie. L’obiettivo era quello di fare la cresta a danno dei dipendenti e dello Stato. Il tutto, secondo la procura, per abbattere il costo del lavoro, e offrire prezzi ribassati e fuori mercato al committente: “É la solita logica del massimo ribasso, che scarica il rischio d’impresa sui lavoratori e che crea anche un danno alle imprese virtuose”, ci spiega Tiziano Beldomenico, segretario generale Fiom Ancona e Marche.
La paga globale
Il sistema che usavano le aziende sotto accusa è quello della “paga globale”. In sostanza, le ditte prendevano accordi con il lavoratori su un salario orario fisso. La busta paga veniva poi ricostruita ad arte, facendo figurare sulla carta, ma non versando al lavoratore malattie, ferie, tredicesima, Tfr o straordinari. Se una persona poco esperta avesse letto una di quelle buste paga non si sarebbe accorta di nulla. Perché dentro pare ci sia tutto. Invece manca ogni garanzia prevista dal contratto nazionale. Per la Fiom, si tratta di “vero e proprio sfruttamento di lavoratori, magari qualificati, che lavorano pure 14 ore al giorno e che vengono pagati sì e no 7 euro l’ora”.
Lo stratagemma della paga globale, però, non è certo una novità. É dagli anni ‘90 che il sindacato raccoglie denunce di lavoratori che quando vengono licenziati si ritrovano senza un centesimo di Tfr. In un primo momento le aziende scaricavano tutte le ore lavorate in più sulle trasferte, poi hanno iniziato a metterci dentro di tutto. C’è stata una diffusione costante: all’inizio al porto di Ancona questo sistema veniva utilizzato da 4 o 5 ditte, nel 2010 erano già il 90% del totale. Dopo anni di denunce, nel 2014 il sindacato ha portato alla procura della Repubblica un primo esposto, che è presto finito nel dimenticatoio. Una seconda denuncia, nel 2017, ha invece trascinato la guardia di finanza sulle banchine anconetane.
Oltre al sistema della paga globale, l’inchiesta ha anche portato alla luce lo sfruttamento feroce da parte delle società subappaltatrici, attraverso intermediatori, dello stato di bisogno dei lavoratori, in particolare di quelli bengalesi. In una parola: caporalato. Gli operai, secondo gli inquirenti, erano costretti ad accettare di tutto, pur di ottenere un contratto di lavoro indispensabile per il rinnovo del loro permesso di soggiorno. “Quando c’è una richiesta massiccia di manodopera - spiega ancora la Fiom anconetana – si fa la fila per entrare al porto. Così sono entrati in gioco i caporali. Sono spesso capicantiere, che chiedono il pizzo per elargire posti. Se le buste paga gonfiate riguardano tutti, stranieri e italiani, il ricatto del caporale è tutto per i bengalesi, che sono più fragili. Perché per portare a casa un tozzo di pane farebbero qualsiasi cosa”. Anche venire ammassati in 10 in un appartamento fatiscente fornito dalle stesse ditte che li frodavano. Pure questo è stato svelato dall’inchiesta della Procura.
Giungla d’appalto
Tutto questo è reso possibile dalla complessità del sistema di appalti che ruota attorno alla cantieristica. Gli appalti pesano per circa l’80%. La Fincantieri ha 8.100 dipendenti diretti, la metà impiegati, a cui si applica pienamente il contratto collettivo nazionale dei meccanici, mentre altri 25mila lavoratori, quelli che costruiscono materialmente le navi, sono in appalto. È così che un modello organizzativo finalizzato “ad abbattere i costi della manodopera” ha creato, sempre secondo Beldomenico, “situazioni di sfruttamento non più accettabili all’interno di un azienda a maggioranza pubblica (il 71,6% di Fincantieri è di Cassa depositi e prestiti ndr)”.
Fincantieri però si dichiara estranea, “mai coinvolta in alcun procedimento giudiziario per episodi di caporalato o altre presunte illegalità relative al sistema degli appalti”. E rivendica anche “la firma nel 2017 del Protocollo quadro nazionale di legalità con il ministero dell’Interno”, l’utilizzo di “procedure condivise anche con le organizzazioni sindacali nell’accordo integrativo aziendale”, e di “una strategia ‘risk based’ che assicura che la propria catena di fornitura possegga appropriati requisiti reputazionali”..L’azienda afferma inoltre di operare “in un sistema economico fondato sulla fiducia e sulla trasparenza, nel quale i propri fornitori rappresentano una risorsa strategica per il conseguimento dei risultati di business”, e aggiunge di aver attivato “una strategia ‘risk based’ attraverso la quale assicura che la propria catena di fornitura possegga appropriati requisiti reputazionali e tenda alla più ampia compliance normativa”.
La nota di commento di Fincantieri