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160 milioni di bambini nel mondo sono costretti a lavorare, 8,4 milioni in più negli ultimi quattro anni. La strada verso l’eliminazione di questa violazione tra le più odiose e inaccettabili della dignità umana ha subito una battuta d’arresto e ha invertito la tendenza al ribasso che aveva visto il lavoro minorile diminuire di 94 milioni di unità tra il 2000 e il 2016. Questo i dati forniti dal nuovo rapporto congiunto “Lavoro minorile: stime globali 2020, tendenze e percorsi per il futuro” di Unicef, Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, e Ilo, Organizzazione internazionale del lavoro, in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile che si celebra il 12 giugno. “Una situazione davvero preoccupante, che potrebbe peggiorare ulteriormente – avvisa Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia -. Entro la fine del 2022 a livello globale nove milioni di bambini in più rischiano di essere spinti verso il lavoro minorile a causa della pandemia. Un modello di simulazione mostra che il numero potrebbe salire a 46 milioni se i minori non avranno accesso ad alcuna forma di protezione sociale”.
Complici le chiusure delle scuole dovute alla pandemia, gli orari di lavoro prolungati, la perdita di occupazione, i piccoli vengono sfruttati dalle famiglie come fonte di reddito, impiegati anche in attività che possono danneggiare la loro salute e lo sviluppo psico-fisico e morale: dal 2016 i bambini di età compresa tra i 5 e i 17 anni occupati in lavori pericolosi sono cresciuti di 6,5 milioni, fino a raggiungere 79 milioni. Mentre quelli tra i 5 e gli 11 anni rappresentano più della metà dei minori costretti a lavorare a livello globale. Ma in quali settori vengono impiegati? Nell’agricoltura nel 70 per cento dei casi (112 milioni), nei servizi nel 20 per cento (31,4 milioni) e nell’industria nel 10 per cento (16,5 milioni). Infatti la prevalenza del lavoro minorile nelle zone rurali è quasi tre volte superiore a quella registrata nei centri urbani. Dando un'occhiata alle aree geografiche, l’Africa sub-sahariana ha visto l’incremento maggiore: qui la crescita della popolazione, le crisi ricorrenti, l’estrema povertà e le misure inadeguate di protezione sociale hanno fatto registrare un aumento di 16,6 milioni di bambini. Ma anche nelle regioni in cui c’è stato qualche progresso sin dal 2016, Asia, Pacifico, America latina e Caraibi, il Covid sta mettendo in pericolo questi progressi.
“Il rapporto Ilo-Unicef ha il merito di riaccendere i riflettori su un fenomeno globale che meriterebbe molto più interesse – afferma Silvana Cappuccio, Politiche internazionali Cgil -. L’arresto nel processo di riduzione del lavoro minorile è un fatto grave e dimostra che c’è stato un allentamento dell’attenzione da parte della comunità internazionale e dei singoli governi. Ma i numeri che contiene sono inevitabilmente delle stime, considerato che si tratta di lavoro illegale, quindi elaborate per difetto. Il fenomeno è certamente più grande di quello delineato, e questo suscita ancora più preoccupazione”.
A confermarlo è il direttore dell’ufficio Ilo per l’Italia Gianni Rosas: “Questi numeri sono frutto delle nostre rilevazioni nei Paesi – afferma - e rappresentano un’approssimazione cautelativa che certamente sottostima il fenomeno. Pensiamo al nostro Paese: tutti sappiamo che ci sono sacche di lavoro minorile, sappiamo che arrivano tanti minori non accompagnati che poi spariscono, ma i dati non si raccolgono. Quello che emerge è che stiamo perdendo terreno nella lotta contro il lavoro minorile e l’ultimo anno non ha reso questa lotta più facile. Se vogliamo sradicare il fenomeno occorrono più iniziative, più interventi, non solo un’attestazione di interesse per la Giornata mondiale”. Nel rapporto le due organizzazioni indicano la strada. Sono necessari un’adeguata protezione sociale per tutti, comprese le prestazioni familiari universali, un aumento degli investimenti a favore di un’istruzione di qualità e il ritorno di tutti i bambini a scuola anche per quelli che non ci andavano prima del Covid, la promozione del lavoro dignitoso per gli adulti, affinché le famiglie non debbano ricorrere ai loro piccoli per generare reddito, la fine agli stereotipi di genere e delle discriminazioni, investimenti in sistemi di protezione dell’infanzia, sviluppo agricolo, servizi pubblici rurali, infrastrutture e mezzi di sostentamento.
“Lo diciamo da sempre – aggiunge Cappuccio, della Cgil -: una protezione sociale universale contrasta lo sfruttamento minorile, così come sistemi pubblici di qualità accessibili a tutti. L’aumento del lavoro minorile non è solo causato dalla povertà crescente portata dalla pandemia. Ci vuole una risposta politica al fenomeno, così come occorre una gestione politica della pandemia. E oltre agli impegni chiesti ai governi, sacrosanti, dovrebbe diventare obbligatorio per le multinazionali comunicare come si compongono le catene globali di fornitura, come avviene il processo ed è composta la filiera. Perché è lì che si trova la maggior parte del lavoro minorile. Il settore privato ha un’enorme responsabilità, eppure è un ambito di produzione che non è per niente analizzato né tirato in ballo”.
Pensiamo al cioccolato con cui viene fatta la barretta della merenda di nostro figlio: il cacao può provenire dallo sfruttamento dei bambini nelle piantagioni nell’Africa dell’Ovest, che dopo la raccolta arriva in Europa per essere lavorato e venduto. E così finisce a casa nostra, senza che nessuno se ne accorga o batta ciglio. “Lo stesso succede con il cobalto estratto in Africa centrale, che finisce nel mercato per fabbricare i nostri telefonini e i computer – dice Rosas -. Ci sono accordi internazionali a cui le aziende possono aderire su base volontaria, ma poi bisogna impegnarsi per rafforzare le legislazioni e verificare che le norme vengano applicate, anche con controlli nelle fabbriche”.
Il lavoro minorile espone i bambini a danni fisici e mentali, la cui durata è difficile da prevedere, restringe i diritti, toglie opportunità, innesca circoli viziosi di povertà e sottosviluppo. Per questo va combattuto con forza. “Non è un segreto che esiste uno stretto collegamento tra l’aspettativa di vita media di un paese e il livello di scolarità – conclude Silvana Cappuccio -: investire in un’istruzione pubblica di qualità significa investire nella salute e nella vita delle persone. Negare questa possibilità a dei bambini significa condannarli alla privazione di un pezzo importante di vita e di futuro”.