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Nato a Torino il 18 settembre 1910, Vittorio Foa consegue nell’ateneo cittadino la laurea in giurisprudenza nel 1931. Amico di Leone Ginzburg, nel 1933 si avvicina al gruppo antifascista di Giustizia e Libertà, collaborando con lo pseudonimo di Emiliano agli omonimi quaderni pubblicati a Parigi. Arrestato a Torino il 15 maggio 1935 su delazione dell’informatore dell’Ovra Pitigrilli resterà in carcere fino al 23 agosto 1943. Deputato alla Assemblea costituente darà un determinante contributo alla stesura degli art. 39 e 40 della carta costituzionale sulla libertà di organizzazione sindacale e sul diritto di sciopero.
Foa sindacalista
Nominato segretario nazionale della Fiom nel 1955 passa, alla morte di Giuseppe Di Vittorio, alla segreteria della Cgil, “la sua casa”, diceva il giorno dei funerali l’allora segretario generale Guglielmo Epifani. Nel 1970 decide di lasciare gli incarichi sindacali per dedicarsi agli studi (dal 1987 al 1992 è senatore, eletto nelle liste del Pci e poi del Pds, come indipendente).
Dirà nel suo discorso di addio alla Confederazione: “Voi sapete che questo distacco è difficile. Mi consentirete di non vestire di parole dei sentimenti che sono agitati e profondi. Vi prego caldamente, in ragione di una antica stima reciproca, di dispensarvi da parole di commemorazione o gratificazione. Voglio solo ringraziarvi tutti, e con voi mille e mille compagni noti o sconosciuti, per quel che in tanti anni avete fatto di me”.
Età e ragioni di salute - affermava nell’occasione - mi hanno indotto a dimettermi da segretario della Cgil. Si è amichevolmente osservato che l’età non si misura col numero degli anni. Resta il fatto che, l’attenzione dovuta al merito che uno ha acquisito con molti anni di lavoro, contraddice la cruda necessità di congedare chi è logorato. Solo rimedio utile per attenuare quella contraddizione è la fissazione di un limite di età oggettivo, impersonale, oltre il quale si deve partire non per incapacità soggettiva, ma per una norma. E in questo caso la norma vale se non vi sono eccezioni. Si è anche osservato che uno deve, per la Causa, sopportare i malanni dell’età e una salute deteriorata. Ma se la salute ha poca importanza per i singoli, essa ne ha molta per l’organizzazione, soprattutto quando si tratta di quel logoramento tipico del lavoro sindacale che coinvolge il modo di lavorare, la calma e la necessaria capacità di percezione dei particolari del movimento, fuori degli schemi generici.
Gli scritti
Autore di numerosi libri (fra gli altri, Il cavallo e la torre, Questo Novecento, Lettere della giovinezza), Foa aveva pubblicato poco prima della morte Le parole della politica, scritto insieme a Federica Montevecchi.
“Forse - sosteneva nel saggio - il degrado della politica e delle sue parole sta proprio nell’agire pensando di essere soli e nel pensare solo a se stessi … Io non credo che si possa insegnare a pensare al resto del mondo, ma pensare se stessi insieme agli altri è l’unico modo per ricostruire i cosiddetti valori…Vorrei vedere degli esempi perché è dagli esempi che nasce qualcosa”.
Parole sulle quali riflettere e dalle quali, magari, ripartire. Parole che tratteggiano una personalità straordinaria, fresca, incredibile, originale, di una grande curiosità intellettuale.
Sembrava che ridesse sempre - scriveva di lui Concita De Gregorio su l’Unità - anche quando parlava serio. Anche in questa foto qui sopra dove forse ride davvero, chissà, non è proprio un sorriso in effetti: è quel suo modo di stare al mondo con i pugni chiusi, la fronte alta, la coscienza limpida e nelle parole un dubbio, sempre. Alla fine di ogni frase una domanda, perpetua ricerca. Mai un lamento. Di tutti gli altissimi insegnamenti che Vittorio Foa, morto alla fine di un secolo irripetibile, ci lascia in dote questo che sembra un dettaglio mi pare stasera il più grande. Quel sorriso, diverso e lo stesso in tutte le foto e i ricordi. Ciò che in una vita come la sua un sorriso perpetuo significa: andare avanti, pensare agli altri, provare ancora, non chiudersi, non arrendersi.
Una personalità ben riassunta dalla frase - notissima - rivolta a Giorgio Pisanò del Movimento sociale italiano durante un dibattito televisivo: “Se avesse vinto lei - affermava Vittorio - io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, lei è senatore della Repubblica e parla qui con me”.