PHOTO
Di libri sul precariato negli ultimi anni ne sono usciti molti, in particolare nel nostro Paese, che soprattutto grazie al lavoro precario ormai da tempo, troppo tempo, riesce più o meno a tenersi in piedi. Ma questo Tanta fatica per nulla (Edizioni Gruppo Abele, pp. 156, euro 14) è un libro diverso dagli altri, almeno per un paio di motivi.
Il primo si lega all’autore, Edi Lazzi, segretario generale Fiom Cgil Torino, già responsabile del sito di Mirafiori in qualità di funzionario sindacale, poi protagonista delle più importanti vertenze legate alla componentistica auto nel torinese.
Forte di queste esperienze e del suo attuale ruolo, attraverso il quale continua a occuparsi di disparità di genere in ambito lavorativo e di giovani precari, nella prima parte del volume Lazzi ci accompagna in un breve viaggio dentro quella storia d’Italia che comincia il 1° gennaio 1948, con l’approvazione della Costituzione, e che continua negli anni Sessanta e Settanta attraverso una serie di battaglie in tema di diritti, confluite nello Statuto dei lavoratori, salvo evaporare agli albori del decennio successivo, quando a partire dal 1980 le classi dominanti riprendono la loro offensiva ideologica nei confronti del lavoro e dello stato sociale, favorendo così libero mercato, deregolamentazioni e privatizzazioni che ci portano dritti dritti ai nostri giorni.
L’altro motivo che caratterizza la peculiarità di questo libro è legato alla sua seconda parte, nella quale Lazzi raccoglie 13 testimonianze dirette di lavoratori precari, storie itineranti dall’estremo Nord al profondo Sud, coinvolgendo quella fascia d’età che va dai venti ai trent’anni, la più delicata, la più critica se si tratta di fare i conti con il mondo del lavoro.
I nomi sono quelli di Lisa (Piemonte), Roberta (Lombardia), Alessandra (Veneto), Giovanni (Liguria), Loredana (Lazio), Teresa (Abruzzo), Lina e Carlo (Campania), Fabio e Andrea (Puglia), Paolo (Calabria), Maura (Sardegna), Vera (Sicilia). Nomi propri, nomi comuni, ai quali per protezione personale non possono seguire dei cognomi, in virtù proprio della condizione precaria di ciascuno di loro.
Prendiamo una di queste storie, quella di Alessandra, esemplare e rappresentativa delle altre, anche in base al recente Nobel per l’Economia, assegnato a Claudia Goldin per aver “migliorato la comprensione del lavoro femminile”. Alessandra ha 31 anni, vive nel laborioso Nord-Est, come lo chiama; si diploma all’istituto alberghiero, ma aveva già iniziato a lavorare in un hotel. Non conosce bene l’inglese, soltanto a livello scolastico, e dunque il colloquio con il responsabile di quello stesso hotel, dopo il diploma, non regala l’esito sperato.
Comincia così per lei un calvario infinito, passando da una cooperativa che si occupa di scuola, con paga infima, a vari stage finanziati con denaro pubblico, che finiscono per diventare forza-lavoro gratuita per numerose aziende. Arrivata alla Conad, passando per Sephora e altre sigle, si ritrova a svolgere un full-time da 40 ore tra cassa, carico-scarico materiali, sistemazione merci negli scaffali. Il tutto per 600 euro al mese, straordinari inclusi, naturalmente. Dopo dieci anni Alessandra vive ancora con la mamma, e l’epilogo è una sua amara riflessione:
“La rabbia, il risentimento, la frustrazione che tutti noi in un modo o nell’altro sentiamo, sono state assopite. Non c’è nemmeno voglia del riscatto sociale, ci hanno rincoglionito. Poi con i social network siamo dentro una sorta d Matrix. Tutti chiusi dentro noi stessi, sempre di più. Pensa che una mia amica vive con altre due inquiline per dividere le spese. Sono studentesse del Sud, ma anche se sono del Sud non c’è socialità. Ognuno fa la propria vita, si chiudono in camera e stanno sui social. Non mangiano insieme, parlano pochissimo, ognuna si fa i fatti suoi. Ognuno pensa a se stesso, in una sorta di una prigione interiore, isolati da tutto il resto del mondo”.
Ecco, le parole di Alessandra aggiungono un ulteriore elemento, che caratterizza e condiziona il nostro presente, e che nella prefazione ben evidenzia Marco Revelli, richiamando uno dei primi saggi dedicati alla frammentazione del lavoro, L’uomo flessibile di Richard Sennet, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1999. Come scrive Revelli, l’analisi di Sennet “rivelava l’intrinseca crisi di identità di intere generazioni costrette a condurre un’esistenza attanagliata dall’ansia, dal senso di incertezza della propria coscienza di sé, del proprio destino e del proprio futuro”.
Revelli conclude auspicando che il sindacato “come istituzione di rappresentanza del lavoro” si proponga con maggior forza quale elemento di unità, per dare un segnale e un riferimento concreto ai tanti “anelli deboli della catena del comando, in modo da ridare coraggio e senso del proprio agire a tutti”. Compito impervio, nell’era dell’iper-individualizzazione del soggetto-lavoratore, che tanto somiglia a un isolamento ben articolato dai padroni del vapore. Che a scriverne sia un sindacalista concretamente impegnato sul campo, come questo libro di Edi Lazzi dimostra, è fonte di speranza.