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Vignettista, illustratore, blogger, Mauro Biani disegna ogni giorno il mondo in cui viviamo, mettendone in evidenza con ironia e profondità le contraddizioni più ancestrali e difficili da superare e, prima ancora, da vedere. Oltre a pubblicare le sue vignette su diverse testate nazionali, dal 2020 collabora con Atlantide - Storie di uomini e di mondi, il programma condotto da Andrea Purgatori su La7. Il suo tratto distintivo è diventato un riferimento riconoscibile e atteso, che segue e commenta quotidianamente l'attualità.
Mauro Biani, stiamo vivendo un’estate calda, sotto tutti i punti di vista. Come sintetizzeresti questo momento storico con un’unica immagine?
A volte nei miei disegni io prendo come interlocutore il mondo, la terra. Qualche tempo fa mi è capitato di disegnare la crisi climatica attraverso la rivisitazione di una vignetta di Giuseppe Scalarini, un grandissimo disegnatore del primo dopoguerra, che era anche un pacifista e un socialista non interventista. Tra le sue molte vignette sulla guerra, ce n'era una che raffigurava una donna distrutta, appoggiata sulla canna di un cannone. Io l'ho rivisitata disegnando il cannone come se stesse puntando- o sparando- il mondo, che poteva essere al tempo stesso il soggetto colpito dal cannone oppure la palla esplosa dal cannone. Ecco, sceglierei questa vignetta per disegnare questo tempo presente.
Come nascono le tue vignette, come ci arrivi a quel tuo tratto che è diventato così distintivo? Nella tua ispirazione arrivano prima le immagini o le parole?
Una vignetta è fatta di due parti, quella disegnata e quella scritta. Ma a volte il silenzio è la cosa più importante, più incisivo. In alcune vignette il disegno è esplicativo di per sé, come secondo me lo era in quello con la terra e il cannone. Tra parole e disegno ci deve essere un equilibrio. In ogni caso, dietro c'è un pensiero su un tema che voglio trattare. Poi comincio a pensare a come trattarlo. Faccio l’esempio della vignetta uscita alcuni giorni fa su Repubblica a proposito dello ius scholae, che è un altro dei temi che mi sono cari e che dunque amo ripetere. Nel senso che fino a quando non ci sarà una legge decente io continuerò a disegnare su questo tema. In quella vignetta, per esempio, è nato prima il concetto dell’immagine. C'è una bambina scura di terza generazione con uno zainetto che dice “ius scholae” e l'uomo, bianchissimo e italiano probabilmente da mille generazioni le dice: “Da dove vieni? Devi parlare italiano che mica ti capisco”. Ecco, questa probabilmente mi è venuta bene perché riassume una grande parte di tutte quelle difficoltà che impediscono di approvare una legge di civiltà come questa.
A proposito di migranti e migrazioni, un altro dei temi a te molto cari. Negli ultimi mesi sembra essere un argomento dimenticato, “soppiantato” dalla guerra in Ucraina, fino al paradosso di diventare tutti – anche quelli da sempre contrari al tema – propugnatori dell’accoglienza dei profughi ucraini. Quelli sì, solo quelli però...
La questione non è naturalmente l'accoglienza agli ucraini – sulla quale siamo tutti d’accordo – ma è piuttosto il fatto che spesso e volentieri si ragiona e si decide sulla base di una sorta di maggiore “consonanza geografica”: la vicinanza, il colore della pelle. C'è, di fondo, un certo razzismo nell'accoglienza in generale, c'è una certa difficoltà a riconoscersi nell'altro quando questo ha delle fattezze fisiche e culturali molto lontane da noi, e dalle nostre aspettative su chi o cosa debba essere l’altro.
È la "banalità del ma", per citare una tua vignetta e il titolo di un tuo libro...
Sì, proprio così, è la banalità del Ma, non sono razzista ma. Quando uno mette il “ma” è come se avesse completamente cancellato quello che ha detto prima. E poi c’è il fatto che alcune cose noi proprio non le vediamo, non siamo in grado di vederle. Se ci mettessimo davanti a un televisore che trasmette 24 ore su 24 le immagini di tutte le guerre del mondo, collegamenti con tutti gli inviati in qualsiasi zona di guerra, probabilmente diventeremmo matti o completamente avulsi dal mondo esterno. È complicato uscire dalla nostra isola semi-felice.
Forse il compito di una vignetta è proprio quello di fare emergere le contraddizioni insanabili, l’ironia naturale delle cose...
La contraddizione fa profondamente parte del mondo, delle questioni complesse. Pensiamo alla distinzione che si fa tra immigrati, profughi, rifugiati. Spesso la realtà supera la vignetta. Pensiamo ai tanti ragazzi africani che studiavano a Kiev rimasti bloccati in mezzo alla guerra: non potevano muoversi perché erano neri - non c'era nessun altro motivo - anche se scappavano come gli altri dalla guerra, da quella guerra. Per non parlare delle differenziazioni che continuiamo a fare tra i migranti economici e quelli che fuggono dalle guerre. E certo, quelli vivevano nel lusso e poi sono scappati in Italia fingendosi segretamente poveri, perché ambivano a diventare capitani d'azienda! Noi viviamo immersi nella contraddizione, metterlo in evidenza è il lavoro di chi fa le vignette, se riesce ad avere uno sguardo che va oltre il proprio ombelico. Il nostro contributo è una goccia nel mare, ma io credo che chi lavora nell'informazione debba riconoscere di avere una responsabilità. Non è vero, secondo me, che la satira è irresponsabile come se la facesse un bambino di un anno. Chi la fa ha comunque una responsabilità, anche se poi ognuno se la gioca come crede e ci sono un miliardo di modi di fare satira, di fare vignette. Tutti hanno cittadinanza dal mio punto di vista, ma ognuno nel suo piccolo deve sentirsi responsabile.
Parlando di responsabilità e di limiti della satira, un esempio concreto. La settimana scorsa ha fatto molto discutere l’abolizione negli Usa, da parte della Corte Suprema, della storica sentenza “Roe vs Wade” con cui nel 1973 era stato legalizzato l'aborto. La tua vignetta silenziosa era eloquente: una rivisitazione del celebre dipinto di Grant Wood del 1930, “American Gothic”, in cui la coppia di contadini è in attesa di un bambino (lei è incinta) e il marito imbraccia un fucile. Su questo stesso tema, Charlie Hebdo ha pubblicato una vignetta che per certi versi si avvicina alla tua, richiamando la contraddizione tutta americana in cui si vieta l’aborto per tutelare la vita, ma si consente un uso indiscriminato delle armi, con le conseguenze che conosciamo. Il titolo di Charlie Hebdo è “Fine dell’aborto”: c’è una donna incinta dall’espressione rammaricata, evidentemente per il fatto di non poter abortire. Il compagno, con una mano appoggiata sul pancione, le dice “pazienza, tanto tra cinque anni si farà ammazzare a scuola”. Prendendo ad esempio la storia di Charlie Hebdo, quali sono i limiti della satira, fin dove si può spingere?
Secondo me sì ci si può spingere finché uno crede di poterlo e volerlo fare, entro i limiti della legalità. Per me gli unici limiti alla satira sono e devono essere le leggi dello stato. Per il resto, l’autore si prende la responsabilità di quello che dice e disegna, anche andando incontro alla querela. Nel caso specifico, la vignetta di Charlie Hebdo è talmente chiara che è quasi fin troppo lineare. Anche a me era venuto in mente qualcosa di simile e purtroppo la trovo molto vera. In generale, Charlie Hebdo non ha la mia stessa cifra, ma ci sarebbe però da fare anche un discorso culturale: la Francia è un paese molto diverso dall'Italia rispetto al concetto di libertà di espressione, che in francese si traduce nel “io posso dire quello che voglio, dalla rivoluzione francese in poi”. Noi italiani, invece, teniamo un po' più conto della possibilità che ci sia qualcuno che non è d'accordo con la nostra concezione di libertà.
Non si può scherzare su tutto...
Sì, si può, ma bisogna saperlo fare. La satira è un filo sottilissimo da cui si può cadere. Se quel filo di immagini e di parole si spezza, caschi sulla cavolata più terrificante o più razzista possibile. La satira è un gioco, ma come tutti i giochi bisogna farlo seriamente, fare attenzione soprattutto sui temi sensibili, essere sicuri che il messaggio passi, che colpisca l’obiettivo, piuttosto che la vittima. Certo, poi c’è anche chi vuole deliberatamente colpire la vittima, ma secondo me bisogna evitarlo. Devi stare in campana. Se non sei capace di affrontare un tema è meglio che ti siedi e aspetti il momento giusto per fare una satira efficace. Noi che facciamo satira siamo dei privilegiati, perché possiamo dire cose che altrimenti sarebbe più complicato dire, anche in contenitori come i media nazionali visti e letti da molte persone.
Ti è mai capitato di cadere da quel filo? Di fare una vignetta di cui ti sei pentito subito dopo averla pubblicata?
Mi è successo una volta, con una vignetta che ironizzava su Brunetta che, da ministro della funzione pubblica, ce l’aveva a morte con i fannulloni. La cosa che mi dava molto fastidio, all’epoca, era che parlare di fannulloni è troppo semplice, perché non sono mai io, lo è sempre il mio collega. È facile “sparare” sui fannulloni. Allora presi in prestito un fatto di cronaca di quei giorni successo in Danimarca, dove un folle aveva compiuto una sparatoria in una scuola. Disegnai uno di questi fannulloni licenziati con una pistola in mano puntata contro lo spettatore (contro Brunetta), un ex poliziotto che ringraziava minacciosamente di essere stato cacciato. Non l'avrei rifatta? Sì, l'avrei rifatta ma un po' diversa, forse la pistola in quel frangente non l'avrei puntata contro lo spettatore, perché rischiava di vanificare le mie buone intenzioni. Moltissimi l'hanno capita e mi difesero, molti altri ci giocarono facendo finta di non capirla, altri non l'avevano proprio capita, però sono stato trattato un po' come un terrorista. Io passo da buonista a terrorista a seconda dei casi.
Terrorista e buonista sono delle semplificazioni, è un modo manicheo di vedere le cose. Un difetto dei media italiani è quello di preferire troppo spesso le opinioni ai fatti, riducendo questioni complesse a una lista di chi è pro e chi è contro. No vax vs pro vax, filo-putiniani vs filo-ucraini. In mezzo ci sono una pandemia e una guerra, però...
Tanto per cominciare io penso che ci sia troppa opinione e poca informazione, un paradosso, dal momento che di informazioni ce ne stanno “a barcate”. C'è poi da dire che la guerra è guerra e riguarda tutti. Puoi far finta che non sia una cosa tua, ma poi il linguaggio di guerra, l'economia di guerra, l'informazione di guerra colpiscono tutti, c'è poco da fare. È complicato trovare una mediazione tra lo spettacolo, gli ascolti e le informazioni. Si cammina anche lì su un filo, e magari su dieci invitati a una trasmissione nove non ne sanno niente e danno delle opinioni. C'è gente che per anni ha denunciato i crimini commessi dal governo di Putin e che siccome ora mette in dubbio alcuni aspetti della guerra viene subito etichettata come "putiniana".
Chiudiamo con un’altra grande contraddizione di queste settimane, che riguarda il mondo del lavoro: si sta cavalcando il paradosso - falso - per cui i posti di lavoro ci sarebbero, ma i giovani non vogliono lavorare. Peccato che nella maggior parte dei casi le condizioni offerte rasentino l’indecenza. Quello che, più di tutto, non si riesce ad accettare è che finalmente giovani sfruttati, sottopagati e precari comincino a dire NO. Tra tutte le vignette che hai disegnato sul tema lavoro, oggi quale sceglieresti per sintetizzare questa fase storica?
Una delle ultime che ho fatto, dove c’è una ragazza appesa a un filo e non si capisce se sta salendo o scendendo. Sta su una corda e sta ferma lì, tra la scuola e il lavoro. In questo momento siamo appesi. Soprattutto i ragazzi e le ragazze, io ho degli esempi anche a casa con due figli adolescenti, quindi conosco questa difficoltà. Le generazioni precedenti, tra cui la mia, hanno costruito un mondo in cui tutto era possibile, bastava volerlo, avere la tenacia. E invece abbiamo scoperto che non è così, non è mai così. Fino a quando avevo vent'anni io c'era ancora la possibilità di iniziare con dei lavoretti ma poi di trovare un lavoro vero, con un salario adeguato al costo della vita, con dei diritti. Oggi si resta inchiodati al lavoretto. L'articolo 18, con tutte le difficoltà che in alcuni casi poteva creare, era un baluardo dei diritti e della libertà di parola e di espressione. L'essere fermi sul filo significa campare alla giornata, non riuscire a progettare, non riuscire a pensare a qualcosa che vada oltre i tre mesi. Quando queste cose vengono a mancare stanno messe male le persone che si aggirano tra lavoretti e sta messa male la società che non ha la capacità di ragionare per progetti, di guardare lontano. Io ho lavorato per tanto tempo in un centro come educatore professionale. La mia attività di vignettista era iniziata come un hobby e nei tanti anni da lavoratore dipendente ho seguito l'evolversi della precarizzazione dei posti di lavoro e l’erosione dei diritti. Invece il fatto che si cominci a dire di no è un segno importante di una presa di coscienza, a parte che con 250 euro al mese per un lavoro di otto ore non ci compri nemmeno le sigarette, sicuramente non paghi l'affitto di casa e non puoi avere una famiglia. Ma manco con 700 euro, manco con mille. Non puoi immaginarlo nemmeno il futuro. Qualche responsabilità ce l’hanno anche i sindacati, devo dirlo, e spero che tornino ad avere un ruolo importante di mediazione, e anche un certo potere. La trattativa, il conflitto sono importanti per la crescita di una società. Senza compromesso non si cresce, non si può crescere. Alcuni contratti stanno fermi da vent'anni. È questo il nodo che spero si affronti in maniera seria, con il salario minimo e non solo. Mi pare una cosa di buon senso. Ma mi pareva una cosa di buon senso anche l'articolo 18. Probabilmente il buon senso mio è diverso da quello degli altri.