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I mesi trascorsi e quelli a venire sono complicati e, nel contempo, gravidi di aspettative. Intere filiere produttive dovranno trovare una dimensione nuova, ragionare in un’ottica di condivisione e programmazione europea, utilizzare al meglio le implementazioni tecnologiche.
Non stupisce quindi che l’annuncio della nascita di una Netflix italiana della cultura abbia riscosso qualche attenzione.
Il settore culturale italiano, già da troppo tempo deficitario in termini d’investimenti, è oggi tra quelli che maggiormente risente delle condizioni e delle conseguenti restrizioni determinate dalla pandemia, dunque ben vengano iniziative di prospettiva.
Di certo pensare a una piattaforma, seppure proprietaria, di diffusione dei contenuti non dice quasi nulla: la piattaforma è solo uno strumento che di per sé non risolve tutti i temi di attenzione pregressi, legati alla necessaria valorizzazione e tutela del patrimonio culturale, alla necessità di programmazione d’investimenti in produzioni indipendenti, dal supporto alla domanda fino al sostegno necessario per categorie di lavoratrici e lavoratori per loro stessa natura discontinui.
Se poi la piattaforma nasce da una partecipazione di Cassa Deposito Prestiti (con il 51% del capitale e un investimento di 9 milioni di euro) e la piattaforma privata Chili Spa (con il 49% e ulteriori 9 milioni ), è legittimo in primo luogo chiedersi quale siano le caratteristiche del partner privato scelto. Infatti, da quel che leggiamo, Chili non sembra avere una consolidata produzione di contenuti, dovrebbe consentire l’incontro tra offerta e domanda di contenuti culturali delle tipologie più disparate e sconta l’ottavo bilancio consecutivo negativo.
Il MiBact dovrebbe poi controllare il progetto, investendo altri 10 milioni di euro e dunque si tratterebbe di una piattaforma pubblica.
Ma in Italia esiste già una piattaforma pubblica che si chiama RaiPlay. È bene ricordare che la Rai è la più grande azienda culturale del Paese, che dispone di un archivio invidiabile e che i cittadini pagano una tassa di scopo proprio per sostenere il servizio pubblico.
Probabilmente, se questo fosse l’ostacolo, non sarebbe complicato investire in una implementazione che consentisse la visione di programmi a pagamento, magari pensando anche a una riforma del servizio pubblico radiotelevisivo che lo renda davvero multimediale, capace di rispondere alle sfide poste dal presente: alfabetizzazione al digitale e valorizzazione del patrimonio culturale.
Allargando lo sguardo all’orizzonte europeo poi, dimensione minima per un ragionamento di rilancio complessivo del settore culturale, si scopre che esiste già una realtà che si sta affermando con forza anche in Italia: Arte.Tv, l’emittente franco-tedesca che ha circa 30 anni e che trasmette gratuitamente in 6 lingue, italiano compreso. Arte lavora a stretto contatto con la Rai e collabora, tra gli altri, con il Teatro La Scala.
Infine, per dare una dimensione di quale investimento sia necessario per avere piattaforme efficaci di produzione e diffusione di contenuti, è bene sapere che il budget di Arte.Tv nel 2019 è stato di 137 mln di euro e quello di Netflix del 2020, 173 miliardi di dollari...
Allora, se nulla osta ad agire partenariati pubblici e privati per rilanciare il settore culturale, il tema centrale della questione è quali interventi strutturali si prevedano per sostenere lo spettacolo dal vivo, la cui fruizione non potrà né dovrà essere traslata in eterno sul web, quali ancora per supportare artisti, produttori di contenuti indipendenti e lavoratori dello spettacolo in modo strutturale; in generale sarebbe opportuno costruire, con il coinvolgimento di tutte le parti in causa, un piano per ridare centralità al patrimonio culturale che, nelle sue molteplici declinazioni, deve tornare a essere il core business del nostro Paese e leva di sviluppo.
Le logiche dell’emergenza non sono mai foriere di buoni progetti e di certo non basta un algoritmo per sostanziare un progetto politico.