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Quello che segue è un estratto del volume di Italo Moscati Pasolini Passione, Ediesse, 2004.
Avevano preparato il cielo, stavano preparando le armi. A pochi chilometri da Matera e dai suoi Sassi sorge un castello antico che è stato svuotato e riempito di cose per farlo sembrare ancora più antico con tutte le comodità, bagni in ceramica e luci da teatro, tavole imbandite come nel Medioevo, letti con cortine fumogene per via del color grigio, ferraglie di latta, arazzi o finti arazzi, camere o camerette di tortura, carceri e gogne fabbricate in una Guantanamo di secoli fa. All’entrata, c’è un banco per la degustazione di prodotti locali: pane, salame e vino, il tutto servito in eleganti piatti o bicchieri di plastica. All’uscita, c’è un barile in cemento armato in cui scaricare rifiuti e pensieri, da portare a casa ci sono i sassi, quelli piccoli. Quando fa bel tempo, nel vetusto maniero ripristinato, dalla torre alta sulla pianura si può vedere Matera e intuire i suoi sassi, anzi i Sassi che in questi anni sono stati a loro volta lustrati e lucidati.
Un color chiaro, quasi abbagliante, sostituisce quel nero screpolato e cadente che Pier Paolo Pasolini fotografò per il suo film Il Vangelo secondo Matteo nel 1964. Nero di sporco e di anima nell’Italia del miracolo economico e della dolce vita. Salito sulla torre, su su per cento scalini e oltre, lungo la gola di un serpente metallico, arrivo e guardo, ma non vedo né Matera né i Sassi. C’è foschia. Si alzerà col tramonto? La risposta arriva subito, come se fosse in agguato, imprevedibile ma prevista, con i botti luminosi che riempiono il cielo preparato dagli armatori dei fuochi artificiali. Sibili e bolle di lampi rossi, verdi, gialli, azzurri, a forma di rosa o di cactus, cascate, rivoli, fanfare di arcobaleno. I soliti fuochi di paese più belli che mai, mentre i Sassi sono sempre nascosti dalla foschia che si carica di polveri dissolte e nebbie.
Più belli di quelli che nel finale di Pane, amore e fantasia il maresciallo Carotenuto - De Sica, abbracciando Nannarella la levatrice che spera di impalmare, insieme alla Bersagliera e al suo fidanzatino carabiniere guardano con occhi di speranza nella notte del patrono in quel di Sagliena. Fuochi di festa e di oblio. Esagero. Volutamente. Ma il ritratto del castello, un castello disincantato per ragioni turistiche più che incantato per fascino del ricordo storico, si è composto così da solo, spontaneamente, provocato dall’incalzare di una sequenza di immagini e voci nella serata di festa d’agosto in un paese del Sud.
Non è fantasia. Il richiamo ai Sassi e al nome di Pasolini (...) l’ho sentito fare mentre la pioggia artificiale dei fuochi si avventava sulle nuvole rosa al di sopra di tutti noi, noi visitatori con lo sguardo alzato al cielo per vedere una volta di più l’asino che vola. Voci raccolte, mormorii, sussurri, compiacimenti. Qualcuno parlava con passione di un’idea: Matera, i Sassi, Pasolini, il Vangelo; ecco, quasi la vedo già realizzata – diceva questo Qualcuno –, l’idea di tornare a Pasolini e al film girato proprio tra i Sassi, spostando qui Nazareth e Gerusalemme. Come? Beh, certo bisognerà pensarci meglio; ma perché non richiamare e farsi dare consiglio dagli attori e dai collaboratori del poeta-regista, costumisti e scenografi, per ritrovare quel set che è così poco lontano da esistere ancora? Alcuni sono morti, non si discute: Enrico Maria Salerno, la voce di Enrique Irazoqui (il giovane spagnolo che nel film interpreta Gesù), non c’è più; non ci sono più gli scrittori Natalia Ginzburg, Rodolfo Wilcock e Alfonso Gatto (dove si trovano oggi occhi d’acqua come i suoi, parole di seta che solo lui poteva pronunciare?), Francesco Leonetti (la voce del corvo in Uccellacci e uccellini), la madre di Pasolini, Susanna. Tutti artisti trasformati dal regista-poeta in “attori presi dalla strada” come nel remoto neorealismo.
Non ci sono più neanche Tonino Delli Colli, alto un soldo di cacio e grande direttore della fotografia, o Danilo Donati che vestiva i fantasmi della Terra della Croce tra i Sassi non ancora sfiorati dalle vernici e dagli scalpelli dei restauri. È ben noto – continuava Qualcuno –, ma che importa? Si possono sempre chiamare i sopravvissuti: Ninetto Davoli, Enzo Siciliano e Giorgio Agamben, anche loro coinvolti da Pasolini; sono ben vivi, o no? E poi, i Sassi ci sono, i costumi e gli oggetti di scena saranno da qualche parte, presso qualche sartoria, qualche deposito…
Tanto i fuochi artificiali si trovano sempre. E anche le reliquie. Un bastone. Un maglione senza proprietario. Altri reperti, raccolti in una cassetta. È quel che resta di una morte, quella di Pasolini, avvenuta per delitto il 2 novembre 1975 nello spazio amaro di Ostia dove è stata messa una statua. Verso lo spiazzo amaro e secco come la commare morte, situato lungo un litorale abbandonato e poi rilanciato dopo il delitto come luogo tipico degli orrori, si dirige nel film Caro Diario il regista e protagonista Nanni Moretti, sulla sua vespa in un giorno vuoto d’agosto. Prima di lui e soprattutto dopo di lui altri si sono messi in cammino, verso Ostia, verso il posto del sangue e della caduta di un poeta.
Un breve e lungo viaggio, collegato al richiamo di una seduzione conscia o inconscia che s’incolla al culto della morte e diventa un pellegrinaggio. Una sorta di mesta via in direzione dei mille santuari del Divino Amore d’Italia; qui un pezzo di terra senza maiuscole. Il trasferimento si compie con tutti i mezzi, compresi il veicolo dei racconti dei giornali che tornano volentieri sullo spiazzo immaginario o rifatto sul set o della televisione o del cinema: il vecchio spazio del cinema di Federico Fellini nella Dolce vita per l’apparizione della Madonna, o dello stesso Pasolini, entrambi affascinati dallo spettacolo dei miracoli sotto la pioggia e dalla Galilea spostata tra i Sassi di Matera. Un turismo da seduti che c’illude, sfinendoci, di essere da qualche parte.