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Traduttore e redattore editoriale, direttore della collana Working class per l’editore Alegre, e del Festival letteratura Working Class, dopo la fortuna di libri quali Amianto. Una storia operaia e 108 metri, oltre al saggio Non è un pranzo di gala. Indagini sulla letteratura working class, Alberto Prunetti è ora autore di Troncamacchioni (Feltrinelli, pp. 155, euro 16), una storia della Maremma di inizi Novecento che racconta gli albori del fascismo anni Venti attraverso le vicende umane di anarchici, briganti dal cuore buono e antifascisti per istinto, come nello stesso periodo si autodefiniva Piero Gobetti.
A un secolo di distanza, Prunetti riesce a restituire quelle atmosfere con una scrittura ibrida quanto efficace, rovistando nella documentazione storica e nella leggenda del tempo, attraverso una scrittura ancora una volta unica nel suo genere, che genere non è.
Questo è un libro di lunga gestazione, che lo scorso anno ha trovato nuova linfa…
Sì. La sua prima versione, verso la metà degli anni Novanta, ho iniziato a scriverla quando facevo il pizzaiolo in Italia, e non credevo di scrivere nulla, se non un manoscritto per gli amici, non per pubblicarlo. Poi un’associazione culturale ha voluto farlo, ma all’epoca non pensavo all’editoria quanto a pulire i bagni, e ho detto loro “fate quello che volete”. Negli anni, rileggendolo, ho pensato fosse una storia forte, non raccontata come volevo. Da qui è ripartita una nuova ricerca storica, e di scrittura.
Possiamo spiegare l’origine semantica del titolo?
Si tratta di un’espressione gergale dei boscaioli carbonai della Maremma, che si muovevano nel bosco in maniera diversa da chi fa funghi oggi, abituati ad abbassarsi per trovare ciò che cercano. Un tempo invece questi lavoratori del bosco entravano di prepotenza, di forza, a dritto, spezzando il bosco. Mi viene in mente quanto scritto in un memoriale di Guelfo Guelfi, quando racconta del passaggio di Garibaldi in Maremma prima di imbarcarsi per Cala Martina. Guelfi ci dice che Garibaldi andava nel bosco “rompendo la macchia col petto”. Ecco, il senso di “troncamacchioni” è questo, vivere di forza, anche di prepotenza, che per me è un po’ anche una metafora della struttura della letteratura working class, con la quale cerchiamo di farci spazio tra una selva di persone, in un mondo dell’editoria raffinato, come fini saldatori e operai della scrittura.
La storia e i protagonisti ci riportano agli inizi del secolo scorso, e gli eventi culminano nell’anno 1922. In che modo è stata portata avanti la ricerca documentale?
In effetti i riferimenti da cui partire non sono stati molti, ho iniziato dal lavoro di storici che si erano già occupati della vicenda, oltre ad alcuni scritti di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola riguardo episodi del fascismo in Maremma, del paese di Tatti in particolare. Ho cercato di raccontare l’origine del fascismo dalla periferia, non dalle grandi città come Milano, dove si finisce per descrivere Mussolini e il fascismo in maniera carismatica: io ho cercato di concentrarmi sull’origine di un dispositivo, di una forma di controllo, utile ai latifondisti in periferia e agli industriali in città. Per me questo è stato il fascismo.
Come si costruisce una narrazione di questo tipo, che tu stesso nelle conclusioni definisci tra lo spaghetti western, il romanzo storico working class e un cold case?
La mia collocazione spuria mi obbliga a lavorare in una maniera che non si colloca in un genere. Ho costruito la narrazione anche con gli strumenti dello storico ma non sono uno storico, scrivo o almeno provo a scrivere attraverso forme di romanzo borghese, ma non scrivo un romanzo borghese. Dovevo comunque fare i conti con la forma, con un genere che tende a offrire personaggi forti, con cui ci si identifica. Ma il caso qui non è risolto, arriva l’amnistia, l’oblio, per fascisti e antifascisti, con responsabilità storiche diverse: per gli antifascisti l’esilio, per i fascisti nulla.
Ma i generi si mescolano…
Sì, perché per l’appunto qui non c’è la soluzione del caso, non è un semplice “noir”, non c’è una giustizia che vince, non poteva avere le forme del poliziesco consolatorio che va di moda oggi. Non nascondo di aver guardato ad autori a me cari, ancora Bianciardi ma anche Camilleri, Gadda, un po’ Sciascia… ho cercato la forma ibrida, che sento nelle mie corde, perché volevo dar voce ai subalterni, recuperare la lingua di persone che non avevano modo di far sentire le loro parole oltre l’oralità, poco battuti anche nella letteratura di resistenza, comunque fatta di parole borghesi.
Vale a dire?
Anche in Fenoglio e Calvino, tra i miei autori preferiti, o lo stesso Levi, è sempre presente una classe sociale con un forte capitale culturale, mentre di coloro che hanno mosso la storia abbiamo spesso pochissimo. Ecco perché, ad esempio, ho lavorato molto con le carte di polizia, sul contrasto forte di questa lingua, la lingua morta dei tribunali, tra mimetismo e paradosso, facendola cozzare con la lingua viva del popolo, che in quegli anni aveva pochissime occasioni di essere ascoltata, quando si andava all’anagrafe per registrare nomi rivoluzionari che venivano dati ai figli, o quando cercavi di difenderti per non essere condannato.
La letteratura working class in Italia, grazie soprattutto al tuo lavoro, comincia a essere una presenza riconoscibile nella nostra editoria. A che punto siamo rispetto a un genere che nel resto d’Europa conosceva già una tradizione importante?
Meglio di dieci anni fa. Quando ho iniziato la letteratura working class era un oggetto non identificato, confusa con alcune tendenze anni Settanta, ma non era così. La nostra idea si lega alla volontà di cambiare i rapporti di forza nella società e nell’editoria, non solo attraverso la pubblicazione di testi ma anche di produzione dell’immaginario, con riferimenti non soltanto simbolici ma anche cultuali, come mostra il sodalizio con Gkn e il Collettivo di fabbrica.
E con i quali continuano le vostre iniziative…
Sì, abbiamo stabilito una sorta di piano quinquennale della letteratura working class; ora inizieremo il terzo anno, e per il 2025 l’appuntamento è a Campi Bisenzio dal 4 al 6 aprile con il Festival della letteratura working class. La prima edizione ha avuto per titolo “genealogie”, quest’anno “geografie”, il prossimo sarà intorno alle prospettive future, ma per il momento non voglio dire di più. Accanto al festival c’è poi la collana per Alegre, i premi letterari di Montelupo e della Fondazione Di Vittorio, e riflettendo insieme stiamo provando a dare concretezza, materia, a qualcosa che non è un genere, non è una corrente, ma il tentativo di rappresentare dall’interno le classi subalterne, i lavoratori, rompendo così un oblio, soprattutto italiano, di un’editoria nelle mani delle persone più agiate, dei capitali culturali, delle classi medie, della borghesia.
In altri Paesi è diverso?
In Europa, in Paesi come Svezia, Francia e Gran Bretagna è certamente diverso, mentre da noi persiste una forte distanza di appartenenza, se possiamo dire così. Il nostro Festival viene visto con sospetto, come ci fosse un’ansia classista in certe aree del patronato italiano, che paradossalmente non si spaventano se distribuisci un volantino oppure organizzi una manifestazione, mentre non si aspettavano di vedere gli operai organizzare un reading operaio. Sembra che la letteratura nelle mani degli operai, come nel tempo descritto nel libro, faccia ancora paura al padrone. Allora cerchiamo di muoverci in questa direzione.