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“Da quando gli uomini esistono, il lavoro ha occupato sempre la vita della maggior parte di loro”. Questa frase rappresenta l’incipit di un saggio, intitolato Lavoro: evoluzione di un termine e di un’idea, scritto dallo studioso francese Lucien Febvre, uno dei più grandi storici di tutti i tempi, fondatore della celebre “scuola delle Annales” e autore di pregevoli volumi sull’età moderna. Il saggio – tradotto in italiano da Einaudi nel 1966 e ristampato all’inizio di quest’anno nella piccola antologia Lavoro e storia, da me curata per l’editore Donzelli – venne pubblicato per la prima volta nel lontano 1948, nel numero di gennaio-marzo del Journal de psychologie normale et pathologique.
Com’è noto, il 1 gennaio 1948, cioè pochi giorni prima dell’uscita di tale fascicolo, in Italia era entrata in vigore la Costituzione, il cui incipit era ancora più perentorio e dirompente, poiché fondava proprio “sul lavoro” la nuova Repubblica democratica, nata dalla sconfitta militare del nazifascismo ad opera degli Alleati e della Resistenza.
Basterebbero queste due brevi citazioni – formulate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, anche se per finalità e in contesti profondamente diversi – per sottolineare tutta l’importanza del lavoro, tanto della sua rappresentanza in campo economico, politico e sociale, quanto della sua analisi in ambito storiografico.
La storia del lavoro – come ogni disciplina nel campo delle scienze sociali – ha attraversato diverse fasi, ottenendo importanti risultati sul piano della conoscenza del nostro passato, ma ha anche incontrato numerosi momenti di difficoltà e arretramento. Concepita inizialmente come storia istituzionale e politica, finalizzata alla ricostruzione dei principali avvenimenti e protagonisti di rilievo del movimento operaio organizzato, essa conobbe una nuova fase di giovinezza e di rilancio negli anni Settanta, in corrispondenza della “stagione dei movimenti”, che accompagnò e alimentò gli studi di storia sociale. Successivamente, nella parte finale del Novecento, anche a causa delle difficoltà vissute dalle organizzazioni storiche del movimento operaio e per il venir meno della cosiddetta “centralità operaia” nell’epoca del post-fordismo, essa entrò in una sorta di cono d’ombra, durato all’incirca un ventennio, nonostante le numerose suggestioni della labour history, provenienti dal dibattito internazionale.
Soltanto negli ultimi anni la storia del lavoro ha conosciuto una fase di evidente ripresa, come sempre grazie alla spinta e all’interesse di giovani generazioni di studiosi, i quali hanno sempre espresso con tenacia la convinzione che – in ambito storiografico ma non solo – si tratti di un tema di rilevanza cruciale. Così, non è stata casuale la costituzione, nel 2012, di una Società Italiana di Storia del Lavoro (SISLav), che ho l’onore di presiedere dal febbraio di quest’anno, la quale si pone gli obiettivi della promozione e della diffusione degli studi storici sul lavoro attraverso molteplici iniziative di carattere seminariale ed editoriale, anche grazie ad un sito internet particolarmente utile ed efficace.
Vorrei sottolineare tre aspetti particolari della “nuova” storia del lavoro. Il primo riguarda la dimensione temporale: è diffusa, ormai, la convinzione della validità di un approccio che valorizzi la “lunga durata”, privilegiando discussioni e ricerche attente a cogliere ed esaminare gli elementi di continuità e di mutamento in una prospettiva di lungo periodo, dall’antichità al medioevo, dall’età moderna all’epoca contemporanea.
Il secondo elemento riguarda la dimensione spaziale: l’idea, cioè, che la continua comparazione, il confronto tra contesti geografici diversi, a volte anche piuttosto distanti, permetta di evidenziare non solo le inevitabili e ovvie differenze, ma anche le analogie, a volte sorprendenti.
Infine, vi è un terzo aspetto che, forse, è il più importante. La storia del lavoro, infatti, come poche altre discipline “settoriali”, permette di intrecciare nello stesso tempo molteplici ambiti di indagine: dalla dimensione economica, in quanto il lavoro è sempre stato (e resta) il fattore decisivo di ogni forma di produzione, al valore sociale, poiché il lavoro è sempre stato (e resta) un vettore eccezionale di emancipazione individuale e collettiva; dalla sfera politica, perché il lavoro è influenzato e influenza i rapporti di potere, agli ambiti più strettamente giuridici e istituzionali, in quanto il lavoro è sempre stato oggetto di normative più o meno stringenti nel tentativo di regolamentarlo.
Anche la storia del lavoro – come ogni disciplina storica – necessita di fonti, le più ampie e ricche possibili, custodite negli archivi e nelle biblioteche degli enti culturali, che rappresentano un patrimonio prezioso e insostituibile non solo per la comunità degli studiosi ma per l’intera collettività. Le fonti, di qualsiasi genere e natura (testimonianze orali e documenti scritti, fonti a stampa e audiovisive, prodotte nel corso dei secoli da singole persone e da soggetti collettivi, imprese e organizzazioni, associazioni e movimenti, partiti e sindacati, enti pubblici e privati, personaggi famosi e gente comune), hanno un’importanza straordinaria; per questo la conservazione e la tutela, l’utilizzo e la valorizzazione dei beni culturali, in quanto tra i più importanti “beni comuni” che abbiamo a disposizione, dovrebbero essere ai primi posti nell’agenda politica delle classi dirigenti, a livello locale e nazionale, europeo e internazionale.
A tale proposito, il recente “manifesto” per valorizzare “il lavoro negli enti culturali” assume una notevole rilevanza nella battaglia culturale finalizzata a difendere e rilanciare la centralità del lavoro nella vita quotidiana di ciascuno di noi.
Gli storici del lavoro, insieme alla Società che li rappresenta, non faranno di certo mancare il loro contributo.
Fabrizio Loreto è Ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Torino