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“Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male". Così recita la quarta di copertina del libro di Michela Murgia. Un’analisi lucida di come le parole possono ancora generare le ingiustizie sociali che ogni giorno le donne vivono sulla loro pelle. Ogni volta che viene pronunciata una frase sessista o che tende a sminuire la propria interlocutrice, quando ci si rifiuta di declinare le parole al femminile, o ci si cimenta nel voler spiegare cose che le donne sanno già. La regista Marta Dalla Via ha trasformato questo saggio eredità della scrittrice sarda in uno spettacolo teatrale, con Valentina Melis, Antonella Questa e Teresa Cinque.
Parlare di violenza di genere significa saperne riconoscere tutte le sue forme e manifestazioni, tra cui quella verbale.
Sono d’accordo, ed è proprio da questo assunto che parte lo spettacolo – e prima ancora il libro - Stai zitta, che si concentra su tutto quello che riguarda il linguaggio sessista. Io li definisco soprusi verbali, quelli che sono più difficili da scovare, da riconoscere, sia da parte degli uomini che delle donne, perché sono meno evidenti di un livido e più complessi da destrutturare. Si commette ancora l’errore, a volte, di confonderli con i complimenti, o con delle iniziative non richieste di esercitare una non meglio identificata protezione. Questo è il lavoro che ha fatto Michela Murgia, individuando le dieci frasi che non vogliamo più sentire.
Come lei ha ben spiegato, la violenza verbale è tante cose insieme: da un lato il sessismo, inteso come l’uso di un linguaggio in cui il maschile prevarica il femminile. Dall’altro, quelle espressioni che non vogliamo più sentirci dire, che usano la lingua per sminuire il ruolo della donna.
Sono molto d'accordo e penso che il valore più grande del testo di Michela e di conseguenza lo spettacolo sia proprio quello di concentrarsi sulle cose piccole e più nascoste. Le parole violente sono pericolose, ma lo è anche lo sminuire con comportamenti più subdoli. Per esempio non chiamare una donna con il suo cognome, o usare un diminutivo “carino”, o ancora sostituire la qualifica professionale con l’uso indiscriminato della parola signora, signorina. All’apparenza non mi stai discriminando, però stai di fatto misconoscendo la mia posizione, il mio ruolo.
A volte a noi stesse sfuggono delle espressioni che sembrano auto-denigratorie e ci si sorprende a dire “sono fortunata” nel descrivere per esempio una condizione di piena parità col proprio partner, in famiglia, o di piena soddisfazione professionale. La cultura patriarcale è talmente radicata dentro ognuna di noi da essere così dura da estirpare?
Personalmente sono in un momento della mia vita in cui mi ritrovo a fare i conti con dinamiche simili. Sono sposata, ma non ho figli, ho praticamente dedicato la mia vita al lavoro che adoro. E tuttavia ogni tanto mi rendo conto di avere degli atteggiamenti materni, o di cura, per altro non richiesti. Ma che sono il frutto di un legame forte con una certa cultura, con dinamiche familiari che ho vissuto. Siamo inevitabilmente tutte figlie di questa cultura qui. Quando ci succede una cosa del genere, bisogna dirsi che va bene, che l’importante è essersene accorte. Io stessa non conosco quasi nessuna moglie nella condizione in cui vivo io. Ma ne conosco al contrario tante con i mariti che vanno in tournée e non si sa quando tornano. Sono retaggi che ancora esistono e che vanno riconosciuti. Il mio obiettivo è lavorare sulle mie nipoti, perché abbiano un altro tipo di esempio.
Qual è il nostro compito nei confronti delle ragazze di oggi?
Non sono così a contatto con gli adolescenti, però a volte mi capita di frequentare le scuole superiori per lavoro, e devo dire che è straniante: a vederli così sembra che sia tutto a posto, che vada tutto bene. Ti guardano e sembrano sbarrare gli occhi e dire certo, è normale che abbiamo tutti le stesse opportunità. È ovvio che donne e uomini siano uguali.
Però poi sappiamo che nei fatti non è così. In Trentino Alto Adige un po' di mesi hanno fatto un sondaggio nelle scuole superiori chiedendo agli studenti e alle studentesse quali fossero le professioni che avrebbero voluto fare da grandi. Le ragazze hanno risposto indicandone complessivamente dieci. I ragazzi novanta. Vuol dire che nell’immaginario, le ragazze si sentono ancora legate a certi retaggi: la maestra, la ballerina, e via dicendo.
E poi c’è la cronaca, che ci racconta sempre più spesso di femminicidi di giovanissime per mano di coetanei.
Questo mi fa tremare i polsi, perché ci dice che quel patriarcato così sedimentato da secoli non lo stiamo ancora sradicando davvero nel profondo. Michela Murgia ci ha lasciato questo testo che è in qualche modo la sua eredità. Un saggio chirurgico, preciso. Dieci frasi in discorso diretto che raccontano la maternità, il lavoro, la carriera, la politica, la famiglia, la comunicazione sui social. Ognuna delle attrici ha scelto la frase in cui in qualche modo di riconosceva di più. Perché ognuna di noi non può non riconoscervisi, non essersene mai sentita dire una di quelle dieci. E così, insieme, abbiamo costruito drammaturgia prima e regia poi dopo.
Qual è la sua, di frase? Quella che lei si è sentita dire più spesso? O che la infastidisce di più?
Nel corso della mia carriera mi sono interfacciata sempre di più con uomini che con donne in situazione di potere. Mi è capitato di dover lavorare, o di dovermi confrontare, con più direttori artistici che direttrici, con più registi che resiste. Figure che i complimenti li hanno fatti sempre come se fossero una concessione, un contentino, un modo di approcciarsi dall’alto in basso. Del tipo: “posso dire di te che sei brava perché sei in posizione subalterna rispetto a me”. Non è mai una vera parità, c'è sempre stato qualcuno che mi voleva fare da padre artistico. Ma io un padre già ce l'ho avuto e mi è bastato. Ma come si diceva in apertura, alla fine queste sono dinamiche molto difficili da riconoscere. E inoltre la sensazione è che a volte non sia importante la vera parità, ma piuttosto far entrare una donna nella cricca dei maschi di potere. Cioè, basta che ci sia una donna e siamo a posto. Basta che ci sia una donna al governo, basta che una donna vinca l’Oscar. Basta essere donne a prescindere. Ma non è così, io voglio contare per quello che sono, non per io mio genere. E invece, ancora, anche la solidarietà tra noi donne è un po’ intermittente. Ma questo forse fa proprio parte dell’indole umana. A volte mi sembra che una volta che ci si è salvati la pelle questo basti. E invece no, la vera sfida è rimettersi in gioco insieme, perché la cosa più importante è sempre quello che deve ancora venire.