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La situazione, già grave, in cui versa lo spettacolo dal vivo è diventata drammatica. A causa di una pandemia che non si è fermata, bensì ha ripreso il suo corso terribile.
Ovviamente, a risentirne in misura maggiore sono le attività che si reggono sulla presenza fisica del pubblico, come il teatro o la musica o la danza; e, in gran parte, il cinema e l’audiovisivo. I dati sono crudi e impietosi: più dell’80 per cento delle persone non ha più messo piede nelle sale. Un capitolo, poi, riguarda le biblioteche e gli archivi.
E’ vero che nei recenti provvedimenti governativi (decreti nn.18, 34 e 104/2020, “Cura Italia”, “Rilancio” e “Agosto”) sono state varate misure di sostegno non secondarie. Tuttavia, le misure assunte risentono di un approccio eccezionale, mentre il quadro della diffusione del Covid-19 presenta un contesto inedito, che richiede un approccio sistemico e non occasionale. Di periodo almeno medio e lungo.
Tutto questo comporta scelte impegnative e inedite.
Innanzitutto, è utile che sia accelerato l’iter parlamentare del disegno di legge (atto Camera 2642, Madia ed altri) sul “Riconoscimento della qualifica di attrice o attore professionista e istituzione del registro nazionale”. Si tratta, una volta per tutte, di configurare in maniera stabile le soggettività artistiche, spesso lasciate nel limbo vaghissimo delle hegeliane “arti belle”. E’ una premessa normativa e da sola non basta. Ma sarebbe almeno la dimostrazione di una volontà positiva: alzare la soglia dell’autorevolezza di un mondo popolato da professionalità importanti, al di là della popolarità mediatica.
La società della conoscenza, così agitata a mo’ di slogan, in realtà esiste assai poco. Ciò che viviamo è, piuttosto, il lascito di una lunga stagione liberista in cui si sono affermati i potentissimi oligarchi della rete, con la plateale messa in soffitta del diritto d’autore, inteso nella sua forma migliore e non repressiva. Calpestato soprattutto da un’arrembante conquista “imperialista” del nostro immaginario.
Approcci liberisti e crisi economica (non di oggi, però ora esplosiva) hanno depotenziato il ruolo del lavoro culturale, assoggettandolo a logiche di mero profitto o consegnandolo alla marginalità. I peccati antichi sono, ormai, mortali.
Entriamo, quindi, in un passaggio delicatissimo. Attenzione a non confondere le generose iniziative di riproduzione tecnica degli eventi attraverso lo streaming con una forma espressiva compiuta. Lo spettacolo dal vivo e la sala raggiungono il loro pieno livello estetico nella congiunzione tra produzione e consumo, quest’ultimo parte integrante e attiva. Un’opera che si cimenti con la fruizione ha nell’atto relazionale con l’audience un elemento costitutivo.
L’utilizzo del collegamento mediante le piattaforme telematiche (a parte l’ulteriore favore reso agli Over The Top, i padroni delle filiere) può essere uno strumento transeunte. Non è una strategia. Naturalmente, se simile approccio dovesse continuare, senza dubbio si aprirebbe un nuovo tema negoziale sul riconoscimento del copyright, che non può essere contagiato dal virus. Qualche aggiustamento al riguardo si potrebbe inserire nel corso del recepimento al Senato delle direttive europee in materia (2019/789 e 790). Nel senso di prevedere misure specifiche, nei casi come le pandemie, in cui la componente online delle rappresentazioni possa trovare tutele adeguate.
Che fare? L’unica ipotesi perseguibile è la trasformazione in un sussidio permanente – un reddito per la libertà culturale – dei vari sostegni finora previsti per periodi limitati. Assistenzialismo? No. In Francia e in Germania è stato già deciso qualcosa di simile. E la voce si è alzata forte nelle diverse manifestazioni (da ultimo “Bauli in piazza” a Milano), di un universo dello spettacolo che vuole davvero rimanere vivo, e non solo nella terminologia.
La Carta costituzionale, ricordiamolo, valorizza la cultura nell’articolo 9. Senza attività culturale non c’è vera democrazia. Senza creatività umana vincono robot e intelligenza artificiale.
La pandemia non si trasformi, insomma, in una terribile desertificazione dei saperi e di noi esseri umani.