Dopo artisti come Pistoletto, Emilio Isgrò e Masbedo, l’italiano Jacopo Di Cera porta alla Dynamo Art Gallery di Pistoia la sua visione, trasformando le ombre dei genitori in arte: 4 mq di opera fotografica per raccontare vite straordinarie e quotidianità. Dal 6 ottobre, l’esposizione sulla resilienza dei genitori caregiver, che quotidianamente affrontano le sfide di una malattia grave o cronica dei loro figli.

Jacopo Di Cera, come è nato questo lavoro artistico, da cui emerge una relazione profonda che si è instaurata tra lei e i protagonisti dei suoi scatti?

Conosco da tempo le persone del Dynamo Camp per le cose fantastiche che fanno e per la loro unicità. In Italia sono davvero una realtà molto particolare, soprattutto per i percorsi di collaborazione che instaurano con gli artisti. Alcuni mesi fa c’è stato tra noi un primo contatto ed è nato il desiderio di creare qualcosa insieme. Abbiamo pensato quindi di avviare un workshop fotografico che coinvolgesse i genitori dei bambini ospiti del Dynamo Camp. Volevo, però, che dopo il workshop rimanesse un’opera tangibile, che non fosse solo un mio lavoro fotografico, ma un modo per raccontare qualcosa di profondo che riguardasse questi genitori. Parliamo di caregiver per 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno. L’esercizio, ambizioso, che volevo fare era provare a farli raccontare, far uscire fuori la loro anima. Chi non è un caregiver non riesce a capire davvero fino in fondo questo mondo, anzi spesso secondo me assumiamo verso di loro un atteggiamento evitante, perché ne siamo spaventati. Ma questo è un mondo fatto di momenti molto complicati e altri molto belli, e io volevo provare a tenerli insieme, a coglierli con il mio occhio. Il gioco delle ombre, la prospettiva dall’alto è un percorso di cambiamento del punto di vista su cui già sto lavorando da un po’ di tempo.

Come ha lavorato fisicamente con i genitori per arrivare a creare le posizioni e le dinamiche che vediamo nelle foto?

Abbiamo lavorato insieme per “usare” l’ombra come espressione della loro interiorità. Ognuno di loro ha provato a esprimere il proprio io profondo attraverso la sua ombra. Con alcuni è stato più facile, con altri più difficile, ma volevo proprio creare questo tzunami di ombre, di anime, di emozioni intime che emergono tutte insieme da questa moltitudine, che poi diventa l’opera stessa, che si estende per quattro metri.

Jacopo Di Cera

L’ombra può essere considerata la metafora letteraria e artistica dell'anima, oltre ad essere un espediente artistico e narrativo incredibilmente affascinante da esplorare. C’è il tema del doppio, dello specchio, dell’io profondo. L’ombra non è mai “solo” la proiezione della propria figura.

C'è sempre qualcosa da scoprire dentro quella proiezione. L'ombra di Peter Pan non è Peter Pan, è una parte della sua anima. Ho fatto un esempio fiabesco, ma potremmo citare Platone, per dire che l’ombra è sempre un riflesso di un qualcosa non necessariamente già codificato di se stessi. Non per forza un riflesso nel senso di quello che vediamo allo specchio, ma anche una parte nascosta di noi. Per me è un tema molto affascinante e sul quale sto cominciando a dedicarmi con un percorso più strutturato. Ho messo un primo mattone, ma le interpretazioni dell’ombra sono davvero molteplici.

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Sempre giocando con le metafore, questi genitori sono anche in qualche modo le ombre dei propri figli, che non possono lasciare mai da soli, tanto da arrivare a non avere più un proprio spazio di vita separato da quello che è lo spazio dell’assistenza h24. Un rapporto complesso e costante di amore e dipendenza, in cui questi genitori non sono mai il centro neanche delle loro stesse vite.

In realtà il genitore non è il centro ma lo è a tutti gli effetti, perché nel momento in cui viene a mancare questo supporto si crea un problema enorme. Anche io, nella mia storia personale di genitore, ho vissuto una parentesi molto intensa e profonda di assistenza, e capisco che sembra un ruolo ombra ma in realtà non lo è. Durante il tempo passato insieme, ci siamo stimolati a vicenda a cambiare i nostri punti di vista. Successivamente ho proposto loro di scattare delle immagini che suggerivano, a loro avviso, positività e bellezza, ma provando a spostare il punto di vista rispetto a quello consueto. Qualcuno ha fotografato un fiore dal basso, dal punto di vista di una formica. Uno dei momenti più intensi è stato commentare la foto di un genitore che aveva assunto il punto di vista della spazzatura, chiedendosi come il sacchetto di immondizia vedeva il mondo. Un atto estremamente simbolico, perché questi genitori a volte si sentono trattati come se fossero degli scarti, emarginati perché al di fuori della normalità. Dentro di loro c’è un amore immenso per la propria creatura, ma anche l’odio per la situazione vissuta, la sofferenza profonda rispetto a una situazione statica, che non può cambiare. Gli esercizi che abbiamo fatto insieme penso li abbiano aiutati molto ad avere anche un punto di vista nuovo.

Questi genitori vivono un profondo senso di solitudine, perché è talmente difficile e scomodo mettersi nei loro panni, che si fa prima a girare la testa dall’altra parte. L’arte può combattere il senso di emarginazione? Sia per chi lo vive che per chi, più o meno volontariamente, lo procura?

Queste famiglie fanno fatica ad accedere a percorsi e contesti che invece dovrebbero essere per loro la quotidianità. E questo è un altro dei motivi per cui il Dynamo Camp è un’esperienza straordinaria, perché si basa su una filosofia molto chiara: trascorre alcuni giorni in mezzo alla natura, in una stupenda oasi del Wwf, dove fare attività che tutti noi sarebbero normali, ma non possono esserlo per queste famiglie. Per esempio una passeggiata in mezzo ai boschi, tirare con l’arco, fare esercizio fisico. O ancora disegnare, scrivere, fare una nuotata. Per quattro giorni questi genitori non devono più essere dei caregiver, non devono prendersi cura dei propri figli, perché ci sono tantissimi volontari che lo fanno al posto loro. Sembra banale, ma è pazzesco: vivere 24 ore liberi di fare una passeggiata, o di leggere un libro.

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L’arte è cura, questa è molto di più che una frase retorica.

L’uomo preistorico disegnava nelle caverne ancora prima di parlare e di scrivere. Il bisogno di dialogare, di farsi capire è sempre esistito. In questo senso, Dynamo Camp da sempre investe sull’arte come forma di comunicazione. Da qui sono passati grandi artisti come Pistoletto, perché l’arte riesce ad arrivare a tutti, col suo linguaggio semplice, naturale, diretto. Poi ogni artista ha il suo timbro, il suo occhio, il suo stile, ma la nostra è una missione bellissima.

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