Il regista americano Michael Moore alla presentazione romana del film documentario Sicko è una fotografia che probabilmente non sarebbe mai uscita dal mio archivio del 2007, se non ci fossimo trovati in una situazione pandemica che ha fatto esplodere drammaticamente tutte le contraddizioni di gran parte dei sistemi sanitari, compreso quello italiano.
L’autore di pellicole di denuncia – di Stati Uniti molto meno democratici di quanto si pensi – che gli sono valse anche un Oscar e una Palma d’oro, in questa opera forse non dà il meglio di sé, ma racconta attraverso una serie di testimonianze come il potere delle case farmaceutiche e delle compagnie assicurative determini un sistema sanitario improntato a disuguaglianze che portano i cittadini più deboli a indebitarsi per essere curati e, in alcuni casi, addirittura a una rinuncia alle cure che, non di rado, conduce anche alla morte.
In quel fine agosto di 13 anni fa Michael Moore, alla Casa del cinema di Roma, aveva spiegato che nel suo Paese ci sono farmaci, macchine e professionisti fantastici, ma quasi 50 milioni di “persone che non possono andare dal dottore se non hanno soldi”.
Cappellino rosso e magliettona nera, risata da eterno ragazzo, la sua esuberanza, fisica e intellettuale, occupava tutto l’obiettivo, salvo lasciare volontariamente spazio alla minuta ministra della Salute, Livia Turco, alla quale stringeva la mano con evidente entusiasmo.
Dunque una giornata di denuncia del sistema sanitario americano, descritto come criminoso dallo stesso Moore, che si trasformò, in virtù della presenza dell’allora ministra, anche in una apologia di quello italiano, che però rivela ora come non mai tutte le sue falle, da imputare forse non tanto ai principi sui quali si basa, ma soprattutto alla loro mancata applicazione e al progressivo depauperamento di personale e mezzi economici.