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Chi di noi non ha mai citato la poltrona in pelle umana, il Megadirettore galattico, l’autobus preso al volo sulla tangenziale? Fantozzi è il nostro immaginario collettivo, il ragioniere siamo tutti noi e ognuno di noi lo è a suo modo. Lo spettacolo Fantozzi. Una tragedia, interpretato dall’erede artistico di Paolo Villaggio, Gianni Fantoni, è in scena al Teatro Nazionale di Genova. Poi andrà a Bologna, Avezzano, Milano, per riprendere in autunno.
Con il regista, Davide Livermore, siamo partiti dal principio. Come è nata l’idea di confrontarsi con questo mostro sacro?
Ognuno di noi giudica Fantozzi pensando di non esserlo, per poi scoprire drammaticamente, anzi tragicamente di esserlo. Questo per me era un sogno da tutta una vita. Io faccio teatro perché penso che abbia una funzione pubblica educativa, nel senso migliore del termine. Penso sia una sorta di Black Mirror capace di mettere un focus su istanze fondanti, o suggerire dubbi a una società che si interroga. Questa non è un'idea mia, viene da molto lontano, ma la sposo. Fantozzi è sempre stato per me un obiettivo, un sogno. È la figura del ragioniere che in qualche modo diventa archetipica e capace di raccontare le nostre umane fragilità. Paolo Villaggio ci ha regalato negli anni settanta un italiano che ha proprio cambiato la nostra lingua, ci ha regalato le parole per poter raccontare le nostre miserie, le nostre sconfitte. Ha sdoganato paradossi e iperboli linguistiche che appartengono ormai alla nostra cultura da tanti decenni. È diventata la nostra vulgata quotidiana, che continua a resistere dopo di lui. Stiamo parlando di una figura disegnata in una maniera talmente straordinaria che incarna Arlecchino e Pulcinella insieme, e in qualche modo ne diventa una naturale prosecuzione. Fantozzi per me è sempre stato anche una grande speranza, il grande desiderio di poterlo mettere in scena, perché mi era evidente che avrebbe potuto continuare a dare tanto. Soprattutto la maschera Fantozzi, intesa come il catalizzatore delle miserie del nostro tempo, così come avveniva nella Commedia dell’Arte.
Nella tragicommedia umana che questa saga ha sempre rappresentato, tutti i personaggi, non solo il protagonista, sono delle maschere esasperate che partono da archetipi e da stereotipi del quotidiano. Quello che affascina è che in un momento storico di grandi lotte, di unione tra i lavoratori, Fantozzi invece è il lavoratore solo, isolato, disincantato.
E anche non rappresentato, per esempio da sigle sindacali. La condizione della solitudine è una condizione fondante in Fantozzi. Quando incontra le letture maledette, comincia a risvegliare in sé in qualche modo una coscienza personale che possa anche essere profondamente critica rispetto al suo quotidiano. Ma poi si troverà da solo a lanciare un sasso contro la Megaditta. Per poi finire a nuotare nell'acquario come triglia. Villaggio era un uomo profondamente di sinistra, sia per le cose che ha detto che per quelle che ha fatto. Si era candidato in Democrazia Proletaria, ha portato avanti battaglie importanti. Poi, però, è curioso come abbia raccontato una non rappresentatività collettiva. Non posso dire quanto questa fotografia corrispondesse a una sua critica personale anche verso le organizzazioni sindacali, ma posso dire quanto ancora oggi funzioni. Io sono torinese e ricordo, negli anni settanta, il senso di appartenenza nei confronti del sindacato, la forza enorme di quel messaggio, di quelle battaglie. Oggi il mondo e la natura del lavoro sono totalmente cambiati, anche i rapporti con i datori di lavoro.
E quella solitudine, in un mondo di servi e padroni, è un racconto ante litteram dei nostri tempi. Chi sarebbe oggi Fantozzi?
Ci abbiamo pensato, ma bisognerebbe fare un lavoro serio per dare una risposta, riflettere su una trasformazione profonda del segno narrativo. Ma sarebbe un bel viaggio da fare, partendo dal posto fisso, dalla costrizione a orari che non sono appaganti, come non lo è il lavoro in sé.
A Gianni Fantoni, l’attore protagonista di questa tragedia, lo stesso Villaggio consegnò la sua eredità artistica più importante: la maschera di Fantozzi. Come avete lavorato sul testo e sul personaggio? Quanto c’è del ragionier Ugo e quanto dell’artista Paolo?
Il lavoro che abbiamo fatto parte dal momento più puro di ispirazione di Paolo Villaggio. Stiamo parlando, cioè, dei primi tre libri, ai quali ci siamo riferiti. Siamo nel periodo in cui Villaggio era profondamente militante come artista, convinto che l'arte, il teatro, il cinema, la letteratura potessero essere capaci di educare all'affettività, alla coscienza collettiva, alla coscienza personale. Secondo lui l’arte poteva suggerire dubbi che spingessero le persone a riflettere. Questo è il contesto in cui Fantozzi nasce dalla penna di Villaggio e che poi ritroviamo anche nei primi due film. Negli ultimi, il personaggio assume una bidimensionalità che non è più maschera tragica ed è più legata ad una macchina di produzione di gag. Questa trasposizione teatrale è stato il lavoro più difficile che ho affrontato nella mia carriera e anche – probabilmente, visto il risultato- il più appagante. Nella mia carriera di cose ne ho fatte, anche di molto importanti, quindi affermare una cosa del genere vuol dire affermare l'importanza che ha avuto per me questo progetto, per ritornare a pensare a un teatro politico. Il teatro è sempre un atto politico, che riporta il singolo spettatore a una dinamica collettiva, a un confronto sulla condizione dell'uomo nella propria società. Il nostro spettacolo, per esempio, si chiude con un confronto spietato. Chiudiamo tutti i personaggi in un camposanto, fantasmi intorno alle loro lapidi, che chiedono al pubblico: “ma siete sicuri voi oggi di essere in una situazione migliore? Siete sicuri che il coglionazzo, la merdaccia sia lui? E richiamano conquiste degli anni settanta, come la scuola e l’università pubbliche, o la sanità, su cui oggi siamo tornati indietro. Chi è ora la merdaccia?
Abbiamo parlato fino ad ora di lavoro. I tecnici del Teatro Nazionale, che lei dirige, hanno lamentato negli ultimi mesi ritmi pesanti, difficoltà a conciliare la vita privata con i turni. C’è un tavolo aperto con le organizzazioni sindacali e un incontro in agenda, il 15 febbraio. Come si esce da questa situazione?
Intorno a un tavolo aperto e parlando con loro. Per essere teatro nazionale ci sono dei parametri ministeriali da rispettare: almeno quattrocento alzate di sipario l'anno, che sono un impegno importante, con cui si garantisce il lavoro a tantissime persone. Mi riferisco alle migliaia di scritturati che abbiamo avuto in questi quattro anni e che non potremmo scritturare se non fossimo teatro nazionale. Detto questo, io ho profondo rispetto per i tecnici e per il lavoro che fanno, ne ho sempre riconosciuto la fondamentale importanza e il ruolo fondamentale che hanno nello spettacolo.