La settimana di Sanremo si è ufficialmente conclusa. Da domani torneremo a parlare della guerra, del lavoro, dei diritti delle persone. Della vita reale che ogni anno mettiamo tra parentesi nella settimana del Festival che ci fa svuotare la mente. Vuota come lo show in prima serata di quest’ultima edizione.

Neanche un monologo brutto, una performance buonista da servizio pubblico, un comico bravo pronto a cadere vittima della maledizione del palco più politically correct che c’è. Ma soprattutto nessuna – o quasi – attenzione al paese reale, ai temi sociali, neanche da parte della musica. Le canzoni ci hanno restituito, nella maggior parte dei casi, un universo solipsistico e autoreferenziale. Se Amadeus, nelle sue edizioni, aveva spinto sulla mercificazione della musica, misurata in streaming e visualizzazioni, Carlo Conti ha virato verso un pop leggero, senza identità. Il suo festival è stato il fedele specchio di un Paese che non ha più voglia – né coraggio – di schierarsi, di prendere una posizione. 

Ecco, dunque, la classifica di Collettiva. Purtroppo, l’unica possibile.

1. LUCIO CORSI, LA POETICA DELLA NORMALITÀ 

La vera rivelazione – per chi non lo conoscesse prima di questo festival – è Lucio Corsi. Un corpo, un volto, una voce che sono un tutt’uno con la poetica di questo artista unico, perché autentico. E dunque non già sentito, nonostante le suggestioni che rievocano naturalmente cantautori del passato come Ivan Graziani e Alberto Fortis tra le sue corde. La sua canzone è il vero capolavoro di questa edizione, capace di portare in musica un tema intimo e personale ma al tempo stesso una dinamica sociale ed esistenziale. Viviamo in un mondo che ci vuole sempre performanti, al top, in grado di apparire molto meglio di quello che in realtà siamo. E per chi, come Corsi, Voleva essere un duro, il bagno di realtà è una doccia fredda. E quanto è duro il mondo per quelli normali. Quanto è duro il mondo che ci vuole sempre infallibili. Ma la vera libertà dall’ansia da prestazione, è scoprire che essere “solo Lucio” va bene così.  

2. BRUNORI SAS, L’ULTIMO CANTAUTORE

Una novità per il pubblico di Sanremo. Un po’ meno per i suoi fan della prima ora, per chi lo segue sin dai suoi primi concerti nei locali dell’interland cosentino o della costa tirrenica calabrese. Un cantautore unico nel suo genere in questo periodo storico, che con musica e testi fa da ponte tra i De Gregori del secolo scorso, i Silvestri dei primi duemila e il nuovo cantautorato. Unico, in un panorama discografico in cui tutto è indie, quindi nulla lo è (più). Sempre in perfetto equilibrio tra il personale e il politico, l’introspettivo e l’ironico, Brunori ha portato a Sanremo un pezzo che non è una dedica alla figlia (come molti in passato già hanno fatto) ma a se stesso, al suo essere padre. Un flash forward sul futuro e poi di nuovo un balzo all’indietro, per descrivere nei suoi versi come cambi la percezione del tempo quando si diventa genitori.

Il senso di inadeguatezza costante di chi naviga a vista, sempre in balia di scelte giuste che però sono sbagliate. Brunori ha portato a Sanremo un pezzo che lo farà conoscere e amare dal pubblico della prima serata. Chi lo ascolta dai tempi di Guardia ‘82, invece, si aspettava che osasse di più. In ogni caso il sole di Dario splende, come nel videoclip della canzone. Commovente il legame di questo autore con la sua terra, la capacità di rappresentarla. La capacità di restare.

3. WILLIE PEYOTE, IL CORAGGIO DI PRENDERE POSIZIONE

Grazie, ma no grazie. Il titolo della canzone contiene già tutta l’ironia di cui abbiamo bisogno. Quella per accompagnare un vissuto quotidiano fatto di situazioni scomode, contesti sociali in cui ci sentiamo pesci fuor d’acqua. Willie Peyote è un rapper raffinato, intelligente, ironico, come ce ne sono pochi nel panorama attuale, in cui quel genere un tempo di nicchia oggi va per la maggiore. Un musicista che si merita più riconoscimento di quello che ha. La sua canzone canta la voglia di rimanere fedeli a se stessi, il disagio di contesti che ci chiedono di tradirci. L’unica vera canzone politica e sociale di questa edizione.

4. SIMONE CRISTICCHI, L’ELOGIO DELLA FRAGILITÀ 

A che serve scrivere se non per condividere con altri esseri umani un destino che ci cambia la vita? La catarsi artistica porta con sé la cura della mente e dell’anima, ma anche l’opportunità di trasformare una questione privata in un tema sociale. Così ha fatto Cristicchi con questo pezzo che affronta il tema della malattia, della non autosufficienza, e di come siamo destinati a diventare genitori dei nostri genitori. Una canzone dolorosa e vera, ma in cui si ritrova quella cifra di Cristicchi che per alcuni può essere un grande difetto: la descrizione pura e semplice, senza ricorso a quel piano simbolico che ti permette di entrare in una canzone, come in una nuova dimensione. Tutto troppo “telefonato”.

5. FEDEZ, LA MUSICA DIETRO LA MASCHERA 

Chi lo avrebbe mai detto? Eppure Fedez è la dimostrazione che se si cominciano a togliere strati e strati di soldi, tradimenti, video sui social e pandoro gate, sotto ci può essere ancora della musica. A Sanremo troppo spesso il contenitore attira più del contenuto, e dunque per settimane si è solo parlato di come impedire che Fedez e Achille Lauro venissero alle mani dietro le quinte. E invece Fedez ha cantato davvero. E chissà –  forse anche per colpa delle aspettative rasoterra – la sua canzone ha saputo stupire più di altre (e più delle sue lenti a contatto total black). Anche Fedez in questo pezzo – forse per la prima volta da quando esiste come musicista – viene fuori sincero e vulnerabile. In pochissimi hanno avuto il coraggio di non parlare d’amore, guardandosi l’ombelico. Possiamo dire che Fedez sia tra questi.

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