Cancelli, inferriate, controlli e alla fine una platea e un palcoscenico, come tanti altri. Quel giorno di dicembre del 2007 andava in scena una rivisitazione di Romeo e Giulietta e a interpretarla erano le detenute trans del carcere di Rebibbia. Oltre a giornalisti e fotografi, tra il pubblico erano presenti altri detenuti, uomini per lo più.
Lo spettacolo è cominciato e la ribalta si è accesa della presenza delle interpreti, appassionate, della luce dei loro sguardi, della vibrazione delle loro voci. Gli abiti sgargianti vestivano un desiderio semplice: esprimersi liberamente. Un’aspirazione che varcava la soglia del carcere e abbracciava la vita tutta di persone abituate a lottare contro ghettizzazione e discriminazione, da sempre.
Durante lo spettacolo si levavano risa e commenti dai detenuti in sala, il fronte era aperto anche lì, quel giorno, ma quanto stava accadendo sul palco aveva più forza di tutto il resto.
“Da quando ho conosciuto l’arte ‘sta cella mi sembra una prigione”, diceva un ergastolano nel film dei fratelli Taviani, Cesare deve morire. Quello che le attrici comunicavano nel teatro di Rebibbia però era altro ancora, era la possibilità di uno spazio aperto in quella somma di chiusure, di menti e di luoghi, la conquista di una dimensione intoccabile, il giusto orgoglio di vite preziose come tutte le altre.