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AudioCoop è un’associazione che si rivolge a discografici, editori, produttori, artisti, festival e videomaker italiani indipendenti, ovvero dediti all’autoproduzione, nata nel 2000 all’interno del Mei di Faenza (il Meeting delle etichette indipendenti) e che rappresenta, oggi, circa il 5% del mercato discografico italiano. Obiettivo di AudioCoop è fare conoscere le diverse realtà indipendenti italiane alle istituzioni e agli organismi che operano nel settore culturale e musicale. Nei giorni scorsi, l’associazione ha segnalato Spotify al Ministero della Cultura.
Giordano Sangiorgi, presidente AudioCoop, come mai questa iniziativa?
L’antefatto è che nei giorni del ponte dell'8 dicembre 2023 tantissime piccole realtà musicali in Europa e in Italia hanno ricevuto la mail di un aggregatore digitale che rappresenta la maggioranza, quasi un monopolio a livello europeo. Stiamo parlando di Believe, una realtà nata in Francia nel 2008 che aggrega tantissime piccole realtà musicali, ma anche i big delle major. Nella mail si segnalava che, nel caso di scoperta di brani fake, ovvero truccati coi bot o con acquisizione di finti streaming, si sarebbe proceduto alla cancellazione del brano. Su questo noi siamo totalmente d'accordo, così come sulla cancellazione dei rumors, e cioè quei brani con registrazione di rumori della strada, che vengono messi online solo per incassare. La cosa grave secondo noi è che si proceda a cancellare l’intero catalogo dell'artista o dell'etichetta. Parliamo magari di artisti con cinquanta, cento brani caricati in quindici anni, o etichette che ne hanno più di duemila. Questa posizione presa da Believe in maniera del tutto unilaterale è per noi molto grave, ma lo possono fare perché non ci sono norme a tutela dei consumatori, né degli artisti che si affidano a questi aggregatori digitali.
Contemporaneamente c’è un’altra presa di posizione che vi ha spiazzati: l’annuncio di Spotify di non voler più pagare le royalties sotto i mille stream.
Diciamo che questa azione congiunta, in tempi brevissimi, ci ha allarmati. Abbiamo immediatamente segnalato queste che ci paiono pratiche eticamente scorrette e totalmente illegittime. Non pagare sotto i mille stream è come dire a un cameriere che non lo paghi se non porta almeno mille caffè al giorno. Una cosa veramente grottesca, che abbiamo segnalato al Ministero della Cultura e al Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Abbiamo incontrato la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni e chiesto un intervento immediato a tutela di tutte quelle piccole realtà indipendenti che sarebbero state colpite nell’immediato da questi provvedimenti. Non pagare sotto i mille stream significa risparmiare tre euro per circa 150 milioni di brani, ovvero ben 450 milioni. Il rischio non è solo la cancellazione immediata delle piccole realtà discografiche, ma anche di un interno e prezioso patrimonio musicale, che negli ultimi quindici anni ha vissuto prevalentemente sulle piattaforme digitali. Chiediamo al governo di tutelare la musica schiacciata dalle multinazionali, e di investire per creare delle piattaforme digitali europee nazionali alternative a questi colossi multinazionali.
La sensazione è che, come succede sempre nella storia, quando una realtà produttiva artistica si crea dal basso, a un certo punto arriva sempre la longa manus del mainstream a invaderla. Quello che nasce come un territorio di democratizzazione dei processi culturali, viene alla fine comunque colonizzato dai colossi.
Chi detiene il potere economico aspetta solo il momento che tutti i pionieri abbiano speso le loro risorse, per raggiungere quella massa critica di utenti per “comprarseli”. È la stessa cosa che è successa con le radio libere, poi fagocitate dalla concentrazione dei grandi network nazionali. Questo ha significato non solo annientare le piccole radio locali di comunità, ma anche diffondere la stessa musica ovunque. Quello che sta accadendo col digitale è ancora peggio, perché non esiste più il mercato fisico della distribuzione della musica. Prima c’erano i cd, le musicassette, i dischi. Negli anni Novanta gruppi come i Modena City Ramblers, i Mao Mao e tanti altri bastava che distribuissero una cassetta, magari autoprodotta, e in un anno erano capaci di vendere 5, 10 mila copie ai concerti. Allora c'era una massa critica nel mercato dei giovani consumatori musicali alternativa al circuito Sanremo. Oggi questo non esiste più, nel mercato digitale non c'è una piattaforma alternativa, perché non ci sono le risorse per farla vivere. E poi ci troviamo di fronte a un cambiamento dei gusti, degli stili, del modello giovanile di consumo, che sta mettendo in crisi questa realtà. Ci troviamo di fronte a due tipi di mercati musicali totalmente antitetici e lontani: da un lato quello delle major, che offrono intrattenimento da villaggio turistico in serie. Vai a un concerto e trovi un pubblico che canta le canzoni in coro con l’iPhone di fronte a un singolo, che spesso non è neanche un vero musicista. Lo stesso fenomeno Måneskin è rimasto un unicum, perché portare in giro le band costa. Dall’altro lato, ci sono gli artisti che innovano, sperimentano, che hanno contenuti sociali, civili. Musicisti che continuano a suonare dal vivo, ad andare in studio, con i costi che questo comporta, ma non hanno più un mercato a cui rivolgersi. Ed è qui che devono intervenire il governo e l'Unione Europea.
Hai citato Sanremo, dove ormai nella presentazione degli artisti in gara c’è sempre il riferimento a quanti streaming ha fatto, come nuova unità di misura del successo. Cosa ne pensi?
Penso che faccia parte di una logica mainstream di cui poi gli artisti pagano le conseguenze. Penso a Sangiovanni, penso a Ghemon. Se vivi solo di numeri, quando i numeri si abbassano tu vieni messo da parte, passi dalle stelle alle stalle in pochissimo tempo. Il problema è che a volte i numeri sono farlocchi, perché è noto che anche molti big, per esempio nel mondo della trap, gonfiano i numeri. E quindi sei fuori se imposti dei ragionamenti con canzoni che vanno al di là di slogan, testi banali, basi banali, e un linguaggio volgare che puntano a un consumo usa e getta. La sola misurazione attraverso la quantità è un danno, ma lo era anche cinquant’anni fa, quando Luigi Tenco scrisse “mi suicido” (al di là chiaramente delle problematiche personali), mentre andava in finale Io, tu e le rose. Quell’epoca per alcuni versi era simile a quella contemporanea. Negli anni Sessanta ci fu il boom dei singoli in un momento in cui si era abituati ad ascolti di quaranta, cinquanta minuti. Il disco era come un libro, era un racconto.
Se la musica non è più una risposta generazionale, ma solo una risposta di mercato, il messaggio rivoluzionario e culturale si depotenzia e tu artista emergente diventi quello che serve alle major per fare i soldi.
Diciamo che questo è un fenomeno anche qui che c'è sempre stato, persino con il rock. Chi detiene il potere economico cavalca il fenomeno di tendenza. Il rock and roll era un movimento di ribellione giovanile addirittura censurato dalla tv americana, Elvis Presley non poteva muovere il bacino. Ma poi diventò una gigantesca macchina da soldi per l’industria discografica, e non solo. Però accade che quando il fenomeno alternativo diventa un fenomeno di massa, si trasforma in prodotto e perde di autenticità. Il mercato allora crea artisti da allevamento come polli in batteria, che non hanno fatto alcuna gavetta, nascono e muoiono nel giro di pochi anni. Non hanno quel curriculum che fa capire se sei uno che ha iniziato studiando musica, che ha fatto i palchi dei contest e quelli dei pub sconosciuti, che poi è arrivato ai festival più grandi. La gavetta aiuta a crescere, a sviluppare una personalità. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a una trap modaiola, fatta da giovani dell’alta borghesia che fingono di essere dei gangster rap, aggrappandosi a modelli che sono anni luce lontani da loro. Oppure, completamente all’opposto, artisti in testa alle classifiche che stanno agli arresti domiciliari, e a cui gli adolescenti si ispirano. Ma è tutta una questione di marketing, se l’inno cubano facesse vendere, le major si butterebbero su quello. Poi ci sono, invece, quelli come Ghali che, cantando L’italiano di Toto Cutugno a Sanremo, ha fatto un’operazione di grande caratura politica.
C’è un problema etico, certamente, però bisogna anche dire che tra i giovani musicisti non esistono solo i trapper. Ci sono artisti molto diversi, che però le case discografiche molto spesso non hanno interesse a sostenere e promuovere.
Non si è giovanilisti appoggiando tutto ciò che ci viene narrato sui giovani. Lo si è appoggiando i giovani. La narrazione dei giovani tutti trapper è totalmente falsa. Io frequento tantissimi festival e contest legati alla musica live dal basso, e incontro tanti gruppi rock, cantautrici brave, gruppi folk. C’è un incredibile ritorno al prog. Dietro la trap ci sono anche motivazioni economiche: fare una canzone nella propria cameretta costa pochissimo e quindi ti permette nell'economia del digitale di guadagnare molto di più. Se invece devi impegnare un quintetto rock di giovani che per suonare si devono incontrare, andare in sala prove, poi in studio, spostarsi per i live, i costi si quintuplicano. Non dovrebbe essere più libera solo la musica, ma anche i media che la raccontano, soprattutto i più grandi. E purtroppo, non è così.